Il rapporto Ue sulla competitività segna la Caporetto del regionalismo nostrano. Tutta colpa delle mancate riforme

26 Ago 2013 17:04 - di Silvano Moffa

Con la lodevole eccezione di  Oscar Giannino, che all’argomento ha dedicato un  articolo di fondo su il Messaggero , il Rapporto europeo sulla competitività tra Regioni dell’Unione è stato per lo più relegato nelle pagine interne dei grandi quotidiani. Eppure, quel  Rapporto andrebbe letto con grande attenzione. Andrebbe analizzato nei dettagli, sviscerato e compulsato in ogni sua parte. Perché non si tratta, come si potrebbe pensare, del solito pedante volume, pieno zeppo di grafici e di dati numerici difficili da interpretare, spesso contraddittori e basati su parametri opinabili, quando non proprio fasulli. No, qui siamo al cospetto di un lavoro corposo, che fotografa, con crudo realismo e sagacia scientifica, lo stato di benessere/malessere delle regioni europee.  Ne evidenzia il grado di sviluppo e di competitività. Il tutto, in virtù di una meticolosa ricerca basata su una molteplicità di parametri  e indicatori che vanno dall’efficienza e dalla stabilità istituzionale alle infrastrutture, all’innovazione, alla componete energetica ed a quella tecnologica, fino all’analisi approfondita del mercato del lavoro.

Tutti fattori, come è facile intuire, che danno la misura esatta delle condizioni in cui sono chiamati a vivere ed a prosperare i cittadini europei, alle prese con la Grande Crisi e con un Euro che, nel tempo, si è trasformato in una terribile palla al piede per una Europa a velocità differenziata, quanto a situazione economica dei singoli Stati, e ancora lontana anni luce da una autentica coesione sociale e politica. Ebbene, nel quadro di insieme che si ricava dal Rapporto, noi italiani non facciamo certo  una bella figura. Nel complesso, l’Italia si attesa al  18° posto su 28 Paesi dell’Unione. Fino a poco tempo fa, al 2010,  eravamo al 16°. Quel che è peggio, nella scala dei “valori”, siamo ventiquattresimi  per efficienza istituzionale e scarsità di Pil realizzato, e al 26° posto per l’accesso alle nuove tecnologie. Non c’è un dato, in definitiva, che non mostri il segno di una evidente decrescita del nostro sistema regionale. Aggravata, tale decrescita, dal progressivo allontanamento della parte più avanzata del nostro Paese dalla aree più innovative,  che si diffondono lungo l’asse che dalla Gran Bretagna meridionale abbraccia la Scandinavia e  la Germania. Il salto, ma sarebbe meglio definirla una voragine, scaraventa la Lombardia dal 95° al 128° posto, l’Emilia Romagna dal 121° al 141°, il Lazio dal 133° al 143°, il Veneto dal 146° al 158°. Del Mezzogiorno d’Italia meglio non dire. Secondo gli indicatori del Rapporto, il nostro Sud è perfettamente allineato alle aree più povere e arretrate della Spagna, della Grecia e dei Balcani.

Insomma, siamo messi male. Anzi, malissimo.  Scontiamo, questo ormai è risaputo, anni di esasperanti ingolfamenti della macchina burocratica e amministrativa. Siamo soffocati da un profluvio di leggi e leggine spesso confuse e contraddittorie. Ci perdiamo nella inestricabile babele del Titolo V della Costituzione , frutto di un federalismo fallace e della abissale miopia di un legislatore che ha ridotto il decentramento ad un assurdo  e paralizzante gioco fra poteri orizzontali, e ha privato  l’azione amministrativa della verticalità, che pure nasce dalla gerarchia delle fonti e delle norme , e che sola può offrirle una dose di concretezza. Per non parlare del gigantismo della spesa pubblica  che, da quando esistono le Regioni e da quando ad esse sono stati  trasferiti dallo Stato poteri sempre più ampi e diffusi, si è impennata oltre ogni ragionevole livello. Certo, ad onor del vero, non tutto quello che va male – e che il Rapporto della Commissione europea mette in risalto – è addebitabile unicamente alle Regioni. Ciò vale per la pressione fiscale, evidentemente, dove le responsabilità  vanno divise tra Stato, Regioni ed Enti Locali. E vale pure per gli enormi ritardi infrastrutturali, dove spesso opere pubbliche essenziali  si infrangono sotto i colpi dei veti  incrociati delle pubbliche amministrazioni chiamate a dire la loro, in virtù delle rispettive e molteplici funzioni  che ad esse competono, oppure quando  è la magistratura ( il caso Ilva docet) ad interferire, senza minimamente porsi il problema di come mantenere separate le pur rilevanti questioni penali da quelle che ineriscono la vita produttiva di una impresa e di una collettività.

Comunque sia, a noi pare che il Rapporto segni la Caporetto del regionalismo nostrano. E se fossimo davvero un Paese serio e ci fosse una classe dirigente degna di questo nome , non dovremmo perdere ulteriore tempo nel mettere a fuoco i danni che ha provocato. Dovremmo emendarlo, questo tipo di regionalismo, razionalizzarlo, spurgarlo degli elementi corrosivi che lo hanno riempito di metastasi, renderlo coerente con i bisogni vitali dei territori, capace di innervare sviluppo, orientando in maniera oculata le risorse che pure ci sono. A cominciare dalle risorse che arrivano da Bruxelles e che, in non pochi casi, a Bruxelles ritornano perché non riusciamo a impiegarle correttamente. Per farlo, non ci vorrebbe poi molto. Basterebbe riappropriarsi della voglia di fare  davvero le riforme che servono all’Italia. Se non fosse che pigiare  questo tasto mentre spirano venti di crisi di governo, ci fa somigliare tanto al pianista che intona le note del  valzer mentre la nave sta affondando.

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