Le esternazioni di Epifani sono pietre scagliate contro il Cav ma anche contro Letta

8 Ago 2013 16:32 - di Silvano Moffa

Si  va avanti a strappi. Giorno dopo giorno. Così diventa sempre più flebile la speranza che la camicia che tiene stretta la compagine di governo regga e non si slabbri fino a sgretolarsi del tutto. Allora sì che non basterebbe più neanche la benemerita sartoria quirinalizia a ricucire il vestito di questa strana e fragile maggioranza chiamata a sostenere l’esecutivo. Con tanto di benservito al disegno neo-centrista su cui poggia l’asse Letta – Alfano. A  leggere le convulsioni che agitano il Pd in queste ore, sembra ormai approssimarsi il punto di caduta dello scontro tra renziani e anti-renziani. Le esternazioni del segretario Epifani vanno prese per quel che sono. Viste dal fronte del Pdl, sono una provocazione, un colpo alla stabilità, una messa in discussione di un equilibrio già di per sé molto precario. Invitare il centrodestra a liberarsi di Berlusconi dopo la controversa sentenza della Cassazione che ne ha decretato la condanna ,dalle parti di Arcore e dintorni più che una sfida ha il sapore di un insulto. Ma anche nell’ottica del centrosinistra quelle parole pesano come pietre. Scagliate contro lo stesso Letta  al quale si riconosce, con una buona dose di doppiezza, che “sta facendo piccole cose, buone ma piccole”. Un giudizio minimalista, che certo non passa inosservato. Pietre gettate pure sul viso di Renzi, al quale la nomenclatura del Pd,  ruotante  intorno al trio Epifani-Bersani-D’Alema, cerca di  sottrarre  spazi di contestazione, soprattutto sul tema della difesa della legalità, a fronte della pretesa “illegalità” di chi pone, sul  versante opposto, la salvaguardia del leader del centrodestra come fattore di tenuta della democrazia nel Paese.

Tutte questioni che accentuano, come è presumibile, le divaricazioni tra “alleati” e all’interno della sinistra. La verità l’ha scritta Gad Lerner su la Repubblica. In un articolo dal titolo emblematico, “I fantasmi della sinistra”, Lerner  fa la diagnosi delle oscillazioni e delle insicurezze  del gruppo dirigente del Pd. Secondo lui, esse nascono dalla mancanza di una  visione  chiara di quel che dovrebbe essere un partito riformista, cioè una forza politica  che sappia individuare terapie convincenti per curare “la malattia misteriosa che dal 2008 ha ridotto del 25% la produzione industriale, impoverito la maggioranza dei cittadini, aggravato il debito pubblico, diminuito e resi più precari i posti di lavoro”. E’ la Grande Depressione , insomma, che ha portato allo scompaginamento del fronte riformista di una sinistra in piena afasia quanto a idee, e vittima dei suoi “eccessi di compiacenza mostrati nei confronti della grande finanza globalizzata”. Se non è una sconfessione di linea politica, poco ci manca. Per Lerner  non  ci sono appigli cui aggrapparsi per giustificare , o almeno spiegare con qualche decenza, la permanenza del Pd in un governo dove prevalgono gli ossimori, dove il più eretico dei dirigenti economici del partito, Stefano Fassina, è stato chiamato a fare il vice  del ministro più “ortodosso” del governo stesso, Fabrizio Saccomanni. Qui si incarna il paradosso della congiunzione astrale tra la necessità per Bruxelles, garantita da Letta ed ispirata da Napolitano, di avere una guida tecnica in un posto chiave, quale quello delle politiche economiche, accompagnata ad una presenza politica che ne scolorisse proprio tale profilo agli occhi di un elettorato sempre più  disorientato e confuso. Impresa tanto azzardata quanto destinata a fallire. Una furbizia? Chissà. Lerner ne accenna, ma non infierisce. Si limita a descrivere il disagio dei  Fassina e dei Barca, di una sinistra sofferente, anchilosata, stretta in una camicia di Nesso dalla quale fatica a liberarsi. Insomma, qui si sta rappresentando una commedia, con gli attori (ministri, sottosegretari e capi di partito) che sono chiamati a recitare un copione diverso, se non opposto, a cui non credono.  Una forzatura. La forzatura di un’ortodossia imposta dall’esterno sulle gracili spalle della sinistra riformista italiana. Per quanto tempo potrà durare? Il rischio, sentenzia Lerner, è che , nel frattempo, alla sinistra italiana tocchi il destino dei socialisti greci del Pasok, ridotti ai minimi termini per lealtà ai diktat europei.

Una analisi, quella dell’editorialista de la Repubblica, che affonda il coltello nelle carni vive del Pd, mette in evidenza contraddizioni, ambiguità del  suo gruppo dirigente, ne  rimarca la inconsistente capacità propositiva e, alla fine, ne sottolinea la deriva  nell’alveo  della impotenza, laddove la politica, qualsiasi disegno politico, naufraga inesorabilmente e diventa  velleitaria  ogni ipotesi di riscatto. Ora, al netto della linea editoriale fin troppo chiara  del giornale di Scalfai e De Benedetti, nel suo porsi in funzione antagonista rispetto al governo Letta e a tutto ciò che appaia come un possibile cedimento al berlusconismo,  ci sono ragioni  nell’ analisi che spiegano la crisi  profonda che travaglia il fu partito  di Gramsci e di Berlinguer.  Lerner non lo dice. Ma la verità è che nella “contraddizion che nol consente” c’è gran parte del cosiddetto riformismo di sinistra. Un andirivieni più di circostanza che di sostanza. Un flettere su  idee di fondo, al di là del  giudizio  di validità che su di esse si può avere, a favore di  una  vocazione perenne, quasi sublimale, a cogliere le occasioni,  in un misto di opportunismo e di vivacchiare. Il tatticismo , in qualche modo, era riuscito finora a coprire siffatti  limiti. Scompaginata dagli eventi che muovono il mondo e costretta ad assumere una responsabilità  diretta in un pur inedito raggruppamento, la sinistra  ha finito, invece, con il perdere   la bussola. E non sa far altro che procedere a strappi. Incurante delle sorti del Paese.

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