Ora in molti rilanciano il tema dell’immunità: è anche una questione di coraggio politico

19 Ago 2013 15:51 - di Silvano Moffa

Dopo Il Giornale, anche il Corriere della Sera rilancia il tema della immunità per i parlamentari della Repubblica. Vittorio Feltri non le manda certo a dire a chi interpreta il mandato di deputato o di senatore, bloccato dalla paura di assumere decisioni impopolari anche se utili al Paese. Nel caso di specie, decisioni utilissime per rimetter ordine nello scombinato campo della giustizia, dove a prevalere è lo squilibrio di forza tra politica e magistratura, con quest’ultima assurta ormai a potere assoluto, soverchiante ogni altro e, per ciò stesso, insindacabile e irresponsabile, anche quando commette errori macroscopici. Feltri accusa la Casta parlamentare di avere la coda di paglia e di non aver neppure il coraggio di proporre una riforma costituzionale che ripristini l’art. 68, cioè quell’articolo della Carta fortemente voluto dai padri costituenti proprio per garantire il primato della politica e mettere al riparo i parlamentari, per la durata del loro mandato, da qualsivoglia incursione dei giudici che ne condizionasse, o , semplicemente, ne limitasse la libertà di opinione e di decisione. Sono le cosiddette guarentigie , vale a dire un sistema di regole e  “privilegi” di cui si sono dotati tutti i sistemi democratici, proprio per scongiurare tali rischi. Parlamento europeo compreso. Tanto per essere chiari. A Strasburgo vige il principio che un deputato non possa essere giudicato se non previa autorizzazione del  parlamento di cui fa parte. Ne sa qualcosa Massimo D’Alema, che si avvalse di quella prerogativa non molto tempo fa per scampare dalle mani dei giudici.

In Italia, invece, si è proceduto in senso contrario, rinunciando alle vecchie immunità. L’anno della resa è il 1993. Quando, in piena epoca di tangentopoli e sotto la pressione di una opinione pubblica  scossa dagli scandali  e  inquieta per la corruzione dilagante tra i partiti, la classe politica di quel tempo non seppe far altro che  rinunciare alle vecchie immunità.  Così, non solo “per castigare l’abuso abbiamo finito per vietare l’uso”, scrive Michele Ainis sul Corriere , “ma al tempo stesso il Parlamento ha perso l’ultima parola sulla giustizia dei reati e delle pene, decretando il primato della magistratura”. Di più, quando la politica riscrive l’articolo 68, lo fa cancellando lo strumento che lo rendeva funzionale ed efficace. Nel testo dei costituenti, ricorda il costituzionalista, c’era l’autorizzazione a procedere, ossia il visto obbligatorio delle Camere per sottoporre a processo penale ciascun parlamentare; e c’era l’autorizzazione agli arresti, anche in seguito ad una sentenza definitiva di condanna. Insomma,con le vecchie regole sul caso Berlusconi avrebbe deciso il Parlamento.

Fin qui nulla da obiettare, per quanto ci riguarda. Semmai , avendo più volte parlato, su queste colonne,  della incongruenza introdotta dal legislatore in seno ad un dettato costituzionale attento , con grande equilibrio, a delineare e delimitare regole e ambiti di esercizio tra i poteri  dello Stato (è bene ricordare, peraltro, che la magistratura non è assimilabile ad un Potere essendo costituzionalmente un Ordine) , desta in noi forte rammarico che della questione se ne parli soltanto adesso con cognizione di causa e senza remore.  Ci si consenta lo sfogo. Che nulla toglie, è evidente, alle sferzate di Feltri e alle riflessioni in punta di diritto, anzi di Costituzione, del professor Ainis.  Non è questo il  punto. Quel che non ci va giù è il silenzio che, nel recente passato (ci riferiamo alla legislatura precedente), è calato come una cortina impenetrabile sulle iniziative parlamentari che andavano nel senso oggi auspicato. Certo, non ci sfugge l’adagio antico che recita più o meno così: “chi è causa del suo male , pianga se stesso”. Tradotto: la prima a doversi dolere della sua attuale impotenza è la politica. Spettava ad essa, e soltanto ad essa, porre riparo a una assurda coglioneria che ne aveva decretato la subalternità e la fine. È fuor di dubbio. Ma quante volte abbiamo letto, proprio su quei giornali che vanno per la maggiore, stilemi e improperi contro chi semplicemente cercava di abbozzare un discorso che rimettesse un po’ di filo  razionale nelle maglie slabbrate di un sistema senza  più  né  capo né coda.  Non è vero che i banchi del Parlamento, dopo il 1993, sono stati occupati soltanto da pavidi e ignoranti. C’era anche chi il coraggio non lo aveva venduto come un Don Abbondio qualsiasi e non aveva nessuna voglia di nascondere la testa sotto terra come gli struzzi.  Se quelle proposte di legge, firmate da  un centinaio di deputati,  fossero state sostenute dalla stampa e da penne illustri del giornalismo italiano, pronte ad esporsi anche al linciaggio pur di difendere una idea essenziale per il funzionamento della democrazia, forse non ci saremmo trovati nella situazione attuale. E uno come Ainis non sarebbe costretto ad ammettere  che se mettessimo a confronto la Costituzione timbrata del 1947 e quella sfigurata da 15 restyling, difficilmente premieremmo la seconda. Insomma, si stava meglio quando si stava peggio. Che, a ben vedere,  è una ben magra consolazione.

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