No-Tav, un ideologismo bieco che provoca effetti devastanti

2 Set 2013 15:07 - di Silvano Moffa

«Mi arrendo ai No-Tav, chiudo la mia azienda».  Per Giuseppe Benente, di Bussoleto, titolare della Geomont, non c’è altro da fare. Un capannone della sua azienda è stato incendiato nel mentre andava in scena il solito vile, forsennato, delinquenziale attacco di una settantina di attivisti incappucciati al cantiere di Chiomonte. Violenza segue a  violenza. Una escalation  inarrestabile. Nella Valle di Susa, ormai, il terrorismo più bieco, insultante e pericoloso è attecchito come erba velenosa. Sottovalutato, come denuncia il procuratore capo di Torino, Gian Carlo Caselli. Eppure, devastante , ebbro di  fanatismo, capace di adottare i peggiori metodi mafiosi,  dalle minacce alle intimidazioni contro chiunque la pensi diversamente  e lavori per il nuovo “nemico”: l’infrastruttura ferroviaria. Un ideologismo terrificante di cui si ammanta una sparuta minoranza, indegnamente santificata da uno stuolo di intellettuali di sinistra, da Vattimo a De Luca, con quest’ultimo che giunge addirittura  ad esaltare il sabotaggio, come mezzo salvifico per impedire che l’opera si realizzi. Il sabotaggio, capite! Uno strumento da guerra partigiana. Un linguaggio sovversivo che richiama alla mente epoche passate, di cui nessuno avverte nostalgia. E che, invece,nelle menti malate di antagonismo purchessia, prefigurano arsenali di razzi, molotov, cesoie, fionde, chiodi a tre punte, cantieri in fiamme, gesti  “eroici” di un guerriglia che sceglie le Alpi come campo di battaglia. Una guerriglia  che,  da urbana e metropolitana,  ora  si fa montanara. Armata di tutto punto. Seminatrice di angoscia e terrore. Con in più la pretesa di  rimanere impunita. Almeno così pretenderebbe un certo, inverecondo  intellettualismo nato e pasciuto in casa nostra. Dove la casa, ovviamente,  è quella che ospita docenti , filosofi, letterati di scuola sessantottina, cultori di Marx, Stalin e Pol Pot, in servizio permanente effettivo come rivoluzionari tout court, nonostante l’età avanzata e l’incipiente ipertensione prostatica.

Eppure , fa un cero effetto la notizia della resa dell’imprenditore di Bussoleto insieme alla spocchia profetica di questi signori della guerriglia armata. Fa un certo effetto, perché qui stiamo parlando di una Paese che fatica enormemente ad andare avanti. Che sconta ritardi infrastrutturali enormi. Che non è riuscito a fare quel che altri Paesi, con noi confinanti, hanno fatto  in tempi rapidi e certi, dotandosi di un sistema di infrastrutture moderno, efficiente, enormemente più economico, se per economia si intende un insieme di fattori concomitanti e interdipendenti che, alla fin fine, fanno risparmiare tempo, rendono meno ardua la competizione dei nostri prodotti sui mercati internazionali e migliorano la qualità complessiva della vita dei cittadini. Forse è proprio questa cultura che manca. Su di essa bisognerebbe lavorare con  più forte convinzione. Ho  riletto, in questi giorni, la storia di Lorenzo Necci. Una raccolta di appunti e di note che  uno dei più illuminati manager che abbia mai avuto l’Italia aveva iniziato a scrivere alla fine degli anni Novanta e che ha continuato ad aggiornare sino alla fine della sua vita. Un manager , la cui vicenda umana fu segnata da straordinari percorsi professionali, da successi indiscutibili e da eventi  drammatici e tragici. Un perseguitato dalla giustizia. Le accuse che gli furono rivolte nelle varie occasioni che, per dieci lunghi anni, lo videro imputato in diversi processi intentati da differenti  procure,  furono di volta in volta smontate. Finirono nel nulla. Foglie morte di un vento inquisitorio senza mai il barlume di una prova, di un riscontro oggettivo. Una storia, quella di Necci, che andrebbe raccontata. Se non altro per riscattare il valore di un uomo che seppe offrire idee e filosofia alla concreta pratica  manageriale.  Se oggi esiste l’Alta Velocità lo dobbiamo al lui, alla sua visione di futuro.  E’ sua l’ idea che strade, autostrade, trafori, gallerie, treni passeggeri, Alta Velocità, treni merci, interporti, porti, autostrade del mare, navi da carico, navi da crociera, aerei , aeroporti, metropolitane dovessero essere fra loro collegati in un sistema globale. “Questo modo di vedere le cose – amava ripetere Lorenzo Necci – non faceva piacere a tutti, perché come sempre in Italia dominava (ndr .allora come ora) il particolare, la parcellizzazione, e ognuno aveva interessi specifici che a questo particolare si accordavano. E naturalmente – come spesso capita nel nostro Paese quando si cerca di portare avanti un disegno che va a toccare e colpire interessi e rendite di posizione, quando si vogliono realmente cambiare le cose – diventa facile pretesto per attacchi di ogni genere.”  Quel che spingeva Necci  a non fermarsi ed ad andare avanti era proprio la consapevolezza che il livello di mobilità in Italia, nella sua inadeguatezza,  fosse un terribile freno alla crescita e allo sviluppo economico dell’intero Paese.  Non ci voleva molto a capire che a causa della mancata modernizzazione infrastrutturale soffrivamo di una autentica strozzatura nei flussi commerciali ed economici. Rimuovere quella strozzatura non era certo facile, allora come ora. Ma, scriveva Lorenzo Necci, è compito essenziale per ogni governo che si rispetti, e comunque per tutte le forze produttive del Paese, non arrendersi e portare avanti il Progetto. Un monito che ci piace ripetere in queste ore dove, in Val di Susa, va in scena la peggiore sagra della ottusa   violenza  ad opera di pochi energumeni  ai  quali  i Vattimo e i De Luca tentano, miseramente, di offrire una patente rivoluzionaria. E  non sono, in effetti, che pericolosi delinquenti.

 

 

 

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