Tra dimissioni minacciate e verifiche anticipate il governo è ormai un bidone vuoto
È inutile resistere alla tentazione di ricorrere all’abusatissima immagine del Titanic in festa mentre viene inghiottito dai gelati gorghi dell’Atlantico, ma non ne viene in mente un’altra assistendo alla scena di una nazione, la nostra, che ha smarrito il senso della propria storia, del proprio ruolo e del proprio futuro.
La situazione è decisamente surreale: in nome della tutela dell’interesse nazionale, Palazzo Chigi si accinge a complicare la vita agli spagnoli di Telefonica alle prese con l’acquisto di Telecom Italia mentre, sul versante Alitalia, i soci italiani hanno già deciso un aumento di capitale di 100 milioni per non cedere il vettore nazionale alla cordata Air France-klm, e tutto questo mentre non sappiamo – e qui sta il paradosso – se da qui a qualche ora, giorno o settimana l’Italia avrà ancora un governo, un Parlamento e persino un capo dello Stato.
Siamo sulla soglia di un nuovo 8 Settembre, privo tuttavia della grandiosa e tragica cornice di una guerra perduta, di un regime crollato e del suo demiurgo ridotto in catene. Intorno a noi oggi non vediamo macerie fumanti ed eserciti di invasori. Per fortuna. Ma è indubitabile che la coda impazzita di una politica incapace di confronto e di sintesi stia producendo effetti che ricordano molto da vicino quelli di una guerra perduta. Allora perdemmo terre e colonie. Oggi rischiamo la colonizzazione finanziaria. La vicenda Telecom, ma anche Alitalia, così come quella delle decine e decine di marchi prestigiosi di lavoro italiano finiti in mani straniere non possono esaurirsi nella fisiologia del mercato senza imporre una riflessione più approfondita sulla tenuta del nostro Paese.
La pressione selettiva della globalizzazione tende a separare i sistemi socio-produttivi ed i territori in cui investire è conveniente da quelli in cui è penalizzante restare. La volatilizzazione dei nostri marchi e la delocalizzazione delle nostre fabbriche ci iscrivono d’ufficio nella lista dei “cattivi”. La nostra governance istituzionale è ingolfata di pubbliche amministrazioni, regole, burocrazie. Un imprenditore è costretto a destreggiarsi in una giungla inestricabile di leggi e di “organi competenti” e, se ne è esce vivo, guai a distrarsi perché deve ingaggiare battaglia contro il fisco, le banche, le infrastrutture carenti e – sotto alcune latitudini – i criminali.
Sarebbe sommario sentenziare che “questa è l’Italia”, ma è certamente questa la percezione che se ne ha all’estero. D’altra parte, se il sistema politico italiano si squaglia come burro proprio mentre il premier giura sulla sua solidità ed affidabilità davanti alla business community mondiale, è fatale che il livello di fiducia nei nostri confronti sia destinato ad inabissarsi. Nell’era della trasparenza e dello strapotere (in parte abusivo) delle agenzie di rating la reputazione di uno Stato è un asset non meno strategico di Telecom o dell’Ilva di Taranto. Ma tant’è: la politica italiana è arrivata ad un punto di non ritorno. Come usa nel gergo calcistico, sono saltate le marcature ed il risultato è l’odierno, rovinoso conflitto istituzionale dal quale non si esce con generiche esortazioni o con appelli più o meno accorati, ma con la consapevolezza che siamo alle prese con una crisi di sistema finora affrontata con impeti emergenziali. In nome dell’emergenza finanziaria abbiamo prima sospeso la democrazia elettorale con Monti e poi quella dell’alternanza con Letta, in entrambi i casi con esiti tutt’altro che esaltanti. Da circa quattro mesi, in nome dell’emergenza politica, stiamo sperimentando le “virtù” di una maggioranza formata non tanto da partiti tra loro rivali e concorrenti ma da fazioni nemiche che volentieri si eliminerebbero a vicenda. E infatti i neoforzisti minacciano di dimettersi in massa mentre il Pd si balocca con le regole congressuali. In mezzo a loro, desolatamente vuoto, c’è il bidone del governo. Che senso ha continuare a montarvi la guardia?