A Tokyo atterra lo stadio-astronave firmato Hadid. Le archistar nipponiche: fermate l’ecomostro!
Stavolta non è l’americano Richard Meier (padre del contestatissimo progetto museale dell’Ara Pacis) la vittima degli strali di architetti e urbanisti attenti all’armonia delle forme e alla difesa ambientale. Siamo nella Tokyo che si prepara ad ospitare i Giochi Olimpici del 2020 e al centro delle polemiche finisce l’architetta di fama mondiale di origine irachena Zaha Hadid, sua la firma al progetto del gigantesco stadio-astronave che sorgerà al posto di quello dei Giochi del 1964.Mancano ancora sette anni alle Olimpiadi ma già ci si interroga su come il paese della modernità e della tecnologia stupirà il mondo a cominciare dal braciere olimpico che, appunto, sarà acceso in un’astronave modello Goldrake. “Un ecomostro”, secondo un nutrito manipolo di archistar giapponesi sul piede di guerra contro il primo architetto donna della storia a vincere, nel 2004, il premio Pritzker (il Nobel per l’architettura). Stavolta l’immaginifica e avveniristica Hadid, autrice tra l’altro del Maxxi di Roma e del Centro acquatico di Londra 2012, avrebbe esagerato. I numeri della colossale nave spaziale sono da capogiro: ottantamila posti a sedere, 290 mila metri quadrati, un tetto scorrevole per un costo stellare di un miliardo di euro. «Paragonando volume, altezza e superficie lorda di altri stadi olimpici, quello di Tokyo è enorme: i 75 metri massimi di altezza distruggeranno ambiente e assetto urbanistico» dà fuoco alle polveri Fumihiko Maki, decano dell’architettura giapponese e premio Pritzker 1993.
L’ottantacinquenne Maki fa da apripista alla corrente del «no» che vede un folto gruppo di architetti di fama internazionale mobilitarsi contro il mostruoso siluro spaziale, tra i vip nomi del calibro di Sou Fujimoto, Toyo Ito, Kengo Kuma e Taro Igarashi. Ma è troppo tardi, i lavori per il nuovo stadio inizieranno nei prossimi mesi.