Dalla crisi di Forza Italia nuovi spazi per la destra

2 Ott 2013 18:07 - di Mario Landolfi

Non abbiamo peccato di arroganza nel dire che le categorie della politica c’entrano davvero poco con le convulsioni interne al Pdl. Se qualcuno in proposito nutriva ancora dubbi ci avrà pensato il voto di fiducia al Senato a fugarli definitivamente. Al netto della concitazione tipica dei momenti decisivi, non si era mai visto prima d’ora un gruppo parlamentare annunciare un “no” a tutto tondo a Letta salvo vedersi clamorosamente smentito un minuto dopo dallo stesso leader che lo ha trasformato in un seppur sofferto “sì”. Neanche a dirlo, gli stessi che nel corso della riunione avevano convinto il Cavaliere a negare la fiducia all’esecutivo prospettandogli le conseguenze più nefaste delle sette piaghe d’Egitto, ne hanno immediatamente digerito la piroetta salutandola come “grande gesto di responsabilità”. Delle due l’una: o Berlusconi – e ne dubito fortemente – non sa più distinguere quel che gli conviene da quel che lo danneggia o i suoi “falchi” sono irresponsabili. In altri tempi, o sarebbe stato deposto il leader o sarebbero stati allontanati i consiglieri. C’è invece da giurare che tutto scivolerà via lungo le mozioni degli affetti, buone solo a nascondere il vuoto politico.
Ma il vero problema non è questo semmai quello di capire quali effetti avrà sul Pdl o Forza Italia (confesso che mi ci raccapezzo sempre meno) e sul suo futuro. Alfano ha giocato la partita della vita e sembra averla vinta scacciando in un colpo solo tutte le riserve che in circa due anni si erano accumulate sulla sua irresolutezza. Il quid c’era. È venuto fuori nel momento in cui ha avvertito che rischiava di essere ridotto a mera tappezzeria nei nuovi assetti interni disegnati dai falchi. Ormai può solo proseguire. Se si ferma o arretra, è perduto. Non è la prima volta che il centrodestra si spacca, ma è sicuramente la prima volta che l’epicentro del terremoto sta nel nucleo forzista: Alfano contro Bondi, Verdini contro Lupi, la Prestigiacomo contro la Lorenzin. Stavolta il “tradimento” nasce in casa senza l’ex-dc, psi o an a far da parafulmine, a conferma che il problema non stava nei non-forzisti ma nella pretesa di voler fare politica senza osservarne i principi.
In questi ultimi due mesi abbiamo auspicato che Berlusconi si decidesse al gran passo delle dimissioni da senatore con un discorso da statista che rappresentasse il consuntivo dei suoi anni in politica e, nel contempo, la pietra angolare su cui costruire una nuova rivoluzione liberale e nazionale. Un’uscita da gigante – per altro consona alla sua storia – che forse avrebbe finito persino per sconsigliare qualche procura dall’accanirsi ulteriormente e probabilmente avrebbe indotto il capo dello Stato a concedere, ove richiesta, la grazia. È stata invece scelta la strada del muro contro muro che alla fine ha ricompattato il Pd e spaccato il Pdl. Con l’aggiunta beffarda di un voto al Senato che sa tanto di ripiego e che paradossalmente trasforma in un’irrimediabile Waterloo politica quella che fino a qualche ora prima si annunciava come una democratica, ancorché drammatica, conta interna. È presumibile che ora gli “ammutinati” veleggeranno verso un approdo neocentrista, molto sensibile alle sirene di un’Europa ad egemonia tedesca, mentre il nucleo dei fedelissimi si acconcerà alla meno peggio in una posizione di estremismo liberista e di revanscismo antigiustizialista. Per strano che possa apparire, lo spazio per una destra modernamente sovranista, intransigente sui valori della vita, della famiglia ed attenta alle ragioni dell’impresa e del lavoro c’è oggi più di ieri.

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