La “zarina” Lorenzetti e l’arroganza della sinistra: federalismo atipico e “rosso”
La vicenda giudiziaria a carico di Maria Rita Lorenzetti, ex presidente della Regione Umbria, offre a Ernesto Galli della Loggia l’occasione per affrontare sul Corriere l’analisi sui frutti del federalismo. Come si ricorderà, la “zarina” umbra è imputata dalla Procura di Firenze di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e abuso d’ufficio, nella sua qualità di presidente della Italfer, società delle Ferrovie dello Stato. Una carica, quest’ultima, ottenuta non per mirabolanti e sconosciute competenze della medesima, ma solo in ossequio al principio di appartenenza alla nomenclatura che conta in casa diessina: dalla protezione di D’Alema all’amicizia della senatrice Finocchiaro. Nel descrivere i risvolti dello scandaloso comportamento della Lorenzetti, Galli della Loggia appunta la riflessione sul sistema del potere locale, connotato da una élite urbana che, sul versante del potere politico, dà “l’impressione di essere una oligarchia plebea assurta agli agi e alle opportunità del potere senza la minima educazione o cultura necessarie per non restarne ebbra”. Dal linguaggio usato dalla Lorenzetti, nelle telefonate in cui si impartiscono ordini e si registrano compiacenze, alla arroganza manifestata con incredibile sicumera dalla governatrice in pieno delirio di onnipotenza, emerge uno spaccato di governo locale che fa rabbrividire. E qui viene da chiedersi se il localismo italiano, pur con le dovute eccezioni, sia effettivamente di tal fatta. Se l’Umbria, l’Umbria rossa, l’Umbria dominata da sessant’anni da un blocco egemonico “al cui centro c’è un vasto potere massonico che fa da ponte e integra a meraviglia il ferreo potere amministrativo-clientelare del Pd da un lato , e gli interessi del notabilato economico-professionale dall’altro”; se questa Umbria ristagnante e priva di opposizione, rappresenti un caso a sé, un unicum nel suo genere, o se, invece, l’infezione si estenda a tutta la Penisola. Domanda certamente non banale. Cui segue una risposta che vale la pena esaminare nei suoi aspetti. Per Galli della Loggia la spiegazione di una simile deriva va cercata nella disintegrazione degli apparati centrali dei partiti, privi ormai di funzione di indirizzo e di controllo; nelle conseguenze che ciò ha generato in termini di rafforzamento dei clan, delle conventicole locali, autentica “peste della dimensione locale”; nella sempre maggiore diserzione dalla cosa pubblica di personalità indipendenti, “non impegnate a costituirsi una propria, personale, carriera politica”; nell’aumento, infine, di risorse, competenze e funzioni che dai livelli nazionali si sono dislocati su quelli locali, in particolare sulle regioni. Sono tutte cose che, in conclusione, mostrano che cosa sia ormai diventato il tanto decantato federalismo: “ ennesimo capitolo di quell’autentico cimitero delle illusioni che sta diventando l’Italia”. L’analisi è calzante. Non c’è dubbio che la questione etica e morale che investe i livelli istituzionali , in ogni articolazione, è al tempo stesso specchio ed effetto della crisi dei partiti e della politica. Come pure è difficile immaginare che nel circolo ristretto di partiti oligarchici,indipendentemente se il livello sia locale o nazionale, possano trovare spazio competenze e risorse umane in grado di affermarsi come nuova classe dirigente. Se questo cordone non si recide, c’è ben poco da sperare. La diserzione dalla cosa pubblica nell’animo di molti cittadini è dovuta in gran parte a questo blocco. Ecco perché bisognerebbe riformare la politica, riformando i partiti, garantendo processi di democrazia interna, di formazione e di selezione della classe dirigente. Ciò andrebbe fatto su basi giuridiche certe, superando la concezione delle organizzazioni politiche intese come mere associazioni di fatto. Basterebbe rifarsi alla Costituzione nelle parti non ancora applicate. Dove, invece, le norme costituzionali andrebbero cambiate, e bisognerebbe agire con l’accetta, è proprio sulle modifiche introdotte nel Titolo V . L’argomento lo abbiamo trattato in varie occasioni. Qui ora ci limitiamo a sottolineare come la devoluzione di poteri dallo Stato alle Regioni abbia dato vita ad un federalismo del tutto atipico. Invece di unire, come dovrebbe essere, il modello messo in piedi, nella sua forma sbilenca e, per molti versi, incompiuta, non ha fatto altro che divaricare le istituzioni. Le ha rese conflittuali. Non solo. Nel processo di cambiamento messo in atto dalla riforma si sono sovrapposti due diversi criteri ordinatori: quello partitico-parlamentare, tipico dello Stato unitario più o meno regionalizzato, e quello autonomistico-territoriale, che riassume i principi di uno Stato federale. Ne è venuto fuori un tessuto fragile. Pericoloso. In un illuminante saggio di qualche anno fa, Marcello Fedele, sociologo dei fenomeni politici, spiegò tale fragilità con il fatto che gli espedienti pseudo-federali da un lato tolgono coerenza al centralismo preesistente, dall’altro non favoriscono la nascita di un sistema costituzionale efficiente. In mancanza di un sistema politico nazionale, con le caratteristiche che eravamo abituati ad osservare in epoche di non accentuato leaderismo, si è persa ogni simmetria tra centro e periferia. Tra un centro che controlla il processo di selezione in Parlamento e una periferia dove il potere politico è esercitato da quei “cacicchi” locali richiamati da De Rita. Cacicchi che ormai nessun gruppo dirigente nazionale riesce più a controllare.