Lo spionaggio “globale” pone problemi di democrazia e libertà. Altre rivelazioni da “Le Monde”

23 Ott 2013 9:40 - di Gennaro Malgieri

Washington ha spiato le ambasciate francesi, scrive Le Monde. Neanche ai tempi della guerra fredda accadeva una cosa del genere. E’ fin troppo naturale ritenere che anche le rappresentanze diplomatiche di altri Paesi siano state messe sotto controllo. I documenti resi noti dell’ex-consulente dell’Agenzia di sicurezza nazionale americana ((NSA), Edward Snowden, lo lasciano intendere con chiarezza. Il giovane “ribelle” ai sistemi di intercettazione e di acquisizione di notizie adottati dal suo governo, non ha soltanto tolto velo sull’ampiezza dello spionaggio elettronico degli Stati Uniti nel mondo, ma ha pure rivelato come i servizi segreti americani abbiano sviluppato programmi nuovissimi per condurre campagne di spionaggio molto sofisticate e redditizie sul piano politico.

Dalle note interne della NSA ottenute da Le Monde, vengono fuori i dettagli di una vasta operazione di spionaggio delle relazioni diplomatiche francesi all’Onu e a Washington che configurano una vera e propria “guerra elettronica” capace di superare codici ed acronimi tradizionali, allineando cifre e sigle apparentemente inoffensive, tali da non destare sospetti. Un sistema molto efficace, dunque, certamente esteso anche agli altri Paesi al fine di captare informazioni riservate da utilizzare a fini politici, economici e finanziari.

Le rivelazioni del giornale francese non si fermano qui. Sono ricche di dati inerenti l’ingente spesa sostenuta dalla NSA per sostenere un  tale programma di spionaggio; l’elenco dei Paesi (non europei) intercettati; i “successi silenziosi” della politica di sicurezza americana che fin quando non è stato scoperto l’intrigo ha potuto verosimilmente prevenire o contrastare le mosse degli Stati “sotto controllo”.

“Per quanto riguarda l’Italia – ha detto Piero Grasso, presidente del Senato – non c’è alcuna novità. Sul nostro territorio abbiamo una legge che va rispettata e che continueremo a far rispettare”. Ne è proprio sicura la seconda carica dello Stato che sia proprio così? Chi ci dice che gli Stati Uniti non abbiano applicato il loro sistema di acquisizione delle informazione sensibili (e probabilmente anche di quelle banali cadute nella stesa rete) anche al nostro Paese, cimentandosi con intercettazioni telefoniche, telematiche, ambientali, satellitari e quant’altre diavolerie è possibile immaginare? La delegazione del Copasir che si è recata nei giorni scorsi a Washington è convinta del contrario. E, del resto, che senso avrebbe spiare soltanto un Paese o pochi altri lasciando fuori il resto?

Il sistema di sorveglianza Prism è una vera e propria macchina congegnata per soppiantare gli eserciti tradizionali e condurre campagne soft di conoscenze, su cui si fonda  il potere, finalizzate a piegare ai propri interessi gli Stati. Il che vuol dire insinuarsi inevitabilmente nelle private esistenze dei cittadini, per quanto l’operazione possa essere selettiva,  e colpire di fatto i diritti delle persone limitando l’esercizio della pratica democratica che non si risolve nell’esprimere le proprie preferenze politiche.

L’orecchio elettronico, come è stato osservato da Bernardo Valli su Repubblica, immensamente cresciuto dopo l’11 settembre, “è diventato un’insidia perché non ha ancora trovato un equilibrio tra sicurezza, libertà pubblica e privata e diritto all’informazione”. Un bel problema, dunque. Se il sofisticato sistema di informazione, infatti, si applica a contrastare il terrorismo, dovrebbe preservare i diritti individuali che non possono essere massacrati per difendere un astratto principio umanitario facendo a pezzi le vite degli altri. La tecnologia, insomma, non può (o non dovrebbe) sovrapporsi alla politica, dominarla, farne quasi un’ancella e la politica stessa non può (non deve) invocare come alibi la sicurezza per dominare considerevoli parti del mondo dove, incuranti di ciò che accade nell’etere, miliardi di cittadini sono spiati perfino nelle loro attività più elementari. E’ un problema di democrazia sostanziale. E’ una questione di civiltà.

 

 

 

 

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