Nel cimitero del Mediterraneo l’Italia è stata lasciata disperatamente sola dall’Europa
Il Mediterraneo è un immenso cimitero. Sulle sue acque galleggiano i resti della disperazione e dell’indifferenza. Gli echi lontani di parole incomprensibili si confondono con le grida di dolore e di paura lanciati dai “dannati della Terra” nella vana speranza che qualcuno li udisse. La pietà è morta dove nacque agli albori della storia dell’umanità. Questo nostro Mare interno non è più da tempo il grembo della civiltà, ma la bara dove essa è stata seppellita.
Davanti ai trentacinquemila morti che negli ultimi vent’anni hanno finito nella maniera più orrenda il loro viaggio alla ricerca di un po’ d’umanità, stanno propositi vani e leggi insulse, promesse offensive per quanto banali e retoriche oscene. Eccoli i nostri fiori malati di europei distratti dalla difesa delle loro follie monetarie e finanziarie che gettano nel Mediterraneo a coronamento di tragedie evitabili se soltanto delle politiche continentali serie e non frastornanti la pubblica opinione, oltre che ad alimentare le speranze dei profughi dagli inferni africani e mediorientali, venissero adottate con un minimo di realismo ed il massimo di umana partecipazione.
Sì, è vero, l’introduzione nel nostro ordinamento del reato di “immigrazione clandestina” non ha certo aiutato a salvare migliaia di vite umane, ma dare, come fa la Commissione per l’immigrazione del Consiglio d’Europa, tutta la colpa all’Italia di quanto accaduto al largo di Lampedusa l’altro giorno, è indecente. Egemonizzata dai Paesi del Nord e ferreamente presidiata da progressisti di vario genere e natura, la Commissione dell’organismo che pomposamente ed impropriamente si è autodefinito la “casa delle democrazia” in quel di Strasburgo (tutte le volte che vi ho messo piede, per dieci anni, di fronte a quella scritta non ho potuto fare a meno di sorridere amaramente pensando a quanti Stati retti da dittatorelli e tiranni a pieno titolo ne fanno parte), ignora almeno due cose: l’insostenibilità del Trattato di Dublino che prevede la responsabilità in capo al Paese di prima accoglienza nell’affrontare una gigantesca immigrazione che soltanto con il concorso di tutta l’Europa potrebbe essere contrastata con civili ed umane accortezze; e la necessità di non permettere agli schiavisti di uscire dai confini africani intascando da morti viventi quel poco che hanno, il che vuol dire impegnarsi in loco, con iniziative umanitarie di sviluppo economico-sociale, per arginare la piaga dello sradicamento di popolazioni che alla sofferenza dell’abbandono uniscono quella dell’incertezza e del terrore di non riuscire a rifarsi una vita quando la vita riescono a portarla in salvo sulle coste d’Europa.
Una politica dell’immigrazione non può oggi essere affrontata da un Paese lasciato solo. L’Italia è la porta dell’Occidente per ovvie ragioni geografiche. Se eritrei, etiopi, somali, sudanesi si riversano dai porti nascosti tunisini e libici sul primo scoglio che incontrano, cioè quello di Lampedusa, che cosa può fare il nostro Paese, al di là dell’adeguamento di leggi sbagliate o obsolete? E quando gli stessi flussi nascono in Turchia, e poi dalle isole greche s’indirizzano verso le coste italiane, dove sbarcano siriani, iracheni, afghani che fuggono dalle guerre, dai lutti, dalle miserie, che colpa abbiamo noi come italiani?
Invece delle chiacchiere il Consiglio d’Europa, la Commissione europea, il Parlamento europeo rivedano le politiche fin qui seguite e non lascino l’Italia impossibilitata ad agire per come una tale emergenza esigerebbe davanti a questa immana tragedia che suona vergogna per tutta l’Europa, per l’intero Occidente. E la pietà la concretizzino in opere che salvino i disperati che ancora affolleranno il Mediterraneo, almeno fino a quando non troveranno nelle loro terre condizioni di vita civili, più umane, sottraendole a despoti che, paradossalmente, in nome di un “neo-colonialismo” raccapricciante, quella stessa Europa e tutto l’Occidente, oltre alla Russia ed alla Cina cospicuamente foraggiano. Dove vanno a finire le risorse che strangolano l’Africa e ingrassano criminali riconosciuti come “statisti”. Il problema è complesso, ma nessuno sembra disposto ad affrontarlo, mentre la morte naviga nel Mediterraneo.