Una manovra che manca di coraggio e rischia di non farci “agganciare” la ripresina
La montagna ha partorito il topolino. Non vorremmo apparire ingenerosi nel giudicare con taglio minimalista la legge di stabilità varata dal governo. Ad essere obiettivi, un giudizio definitivo si potrà dare solo più in là; quando il corposo documento finanziario avrà superato lo scoglio del Parlamento e ottenuto il gradimento di Bruxelles.
Essendo inoltre il disposto normativo infarcito di una notevole quota di rimandi e di rinvii, e sapendo che le insidie si nascondono quasi sempre nei dettagli, è bene armarsi di pazienza, ed attendere che tutto diventi più chiaro e leggibile. Ciò non toglie, comunque, che si noti una certa discrasia tra gli annunci della vigilia e il prodotto uscito dal Consiglio dei ministri. Partiamo dalle cifre. La manovra fissa il tetto a 11,6 miliardi. Per ora i risparmi di spesa effettivamente previsti raggiungono 3,5 miliardi. Con i bolli sui titoli, entrate bancarie e coperture varie, si sale a quasi 8,5 miliardi. Ne mancano 3 per pareggiare il conto. Dove li andranno a prendere? Il presidente del Consiglio, Enrico Letta, assicura che la differenza che manca sarà colmata dal dividendo europeo, ossia da quello strettissimo margine di manovra sul deficit (che, comunque, deve restare al di sotto del 3% ) concesso dall’Europa. Speriamo sia così. Altrimenti saranno dolori per tutti.
Se poi dalle voci macro si passa alla rassegna dei capitoli di spesa, appare di tutta evidenza la debolezza strutturale della manovra. Di positivo c’è il fatto che non si tocca il livello della spesa sociale e sanitaria. Contrariamente a quel che spesso si afferma, la sanità italiana costa molto meno di quanto costi in altre parti d’Europa. Semmai, il nostro problema è quello di renderla più razionale e competitiva, migliorando qualità, prestazioni, eliminando costose duplicazioni e integrando i servizi ospedalieri con l’assistenza domiciliare. Affermare però, come fanno con buona dose di ipocrisia alcuni ministri, che questa è la prima manovra che non comporta nuove tasse, è come tentare di scambiare lucciole per lanterne. Basta gettare uno sguardo al trinomio delle nuove tasse chiamate a sostituire la Tares e l’Imu per rendersene conto. Qui la matassa si ingarbuglia. Per il nuovo tributo sui servizi, il governo si limiterà ad indicare le linee guida, lasciando al Parlamento la patata bollente di una più precisa definizione e ai Comuni la parola definitiva, quando gli enti locali dovranno applicarla tenendo conto delle situazioni finanziarie delle rispettive amministrazioni.
Soltanto alla fine di questo tortuoso percorso capiremo quale sarà l’impatto della Trise (così si chiama il nuovo tributo) sui contribuenti. Dai primi calcoli, non sembra proprio che Pantalone risparmi. Né che la sua vita di contribuente sarà meno complicata di oggi. L’altra questione che aveva generato grandi aspettative è quella del cuneo fiscale. Sappiamo quanto pesi sulle aziende e sulla busta paga dei lavoratori. La stessa Commissione europea ci ha chiesto di intervenire in quest’ambito. Confindustria e sindacati hanno più volte fatto sentire la loro voce in merito. Si era parlato di 5 miliardi. Una cifra non ancora sufficiente, ma almeno significativa. Invece, per il prossimo anno le imprese si dovranno accontentare di un solo miliardo e 40 milioni. Le cose dovrebbero migliorare a partire dal 2015. La somma impegnata per il prossimo anno rischia di avere effetti dirompenti non solo per la sua entità, assai modesta rispetto alle promesse, ma anche perché la sua distribuzione è lasciata alle intese tra le parti sociali. Non sarà facile stabilire dove intervenire né chi privilegiare. Se a questo si aggiungono l’ennesimo rinvio dell’adeguamento dei contratti pubblici, il blocco degli straordinari e il turn over applicato con il contagocce, ne vien fuori un quadro sociale davvero sconfortante. Un quadro che stride con quell’aria da curato di campagna che il buon Letta cerca di darsi, ogni qual volta si affaccia scamiciato dagli schermi televisivi.
Siamo ben coscienti delle difficoltà finanziarie ed economiche in cui annaspiamo da gran tempo. Come pure non ci sfugge il grado di disomogeneità retributiva che ha alimentato diseguaglianze macroscopiche nel corpo sociale del Paese. Né siamo ingenerosi a tal punto da non comprendere la ragione politica che tiene insieme una maggioranza così singolare e fragile, sotto tutti i punti di vista. Ma, proprio per l’insieme di questi motivi, era lecito nutrire la speranza che, nei fatti, non a parole, la legge di stabilità affrontasse decisamente i nodi strutturali che bloccano la nostra economia e impediscono di agganciare il vagone della pur flebile “ripresina”, di cui pure Letta, nei giorni scorsi, si è mostrato convinto assertore. Invece, niente. La montagna (delle promesse e degli impegni) ha partorito il topolino, appunto. Ed è proprio questo gioco al ribasso, una sorta di minimalismo nell’accontentare un po’ tutti, l’uso del bilancino nello spruzzare un po’ di spesa qua e là, e nel tagliare senza troppa convinzione, che più inquieta e indispettisce. Se proprio vogliamo cercare il senso di questa manovra, forse dovremmo scrutare con più attenzione la fisionomia di chi la propone. Ci accorgeremmo allora che essa rispecchia uno stile e un modo di essere. Uno stile troppo blando per essere efficace. Privo del coraggio che, invece, il Paese invoca per tornare a crescere.