Addio alle larghe intese che non sono mai riuscite a decollare. Ecco quale sarà il destino di Letta e Alfano…
Addio alle larghe intese. Lo hanno scritto in molti, dopo che Forza Italia ha deciso di non appoggiare più il governo Letta e dopo il voto sulla decadenza da senatore del Cavaliere che ha sancito la fine di ogni possibile forma di collaborazione con il Pd. Ma le larghe intese sono davvero mai nate? O non si è trattato piuttosto di un paravento lessicale per mascherare la necessità di far sorgere un governo d’emergenza? Perché, va detto, le larghe intese presuppongono una tabella di marcia condivisa su alcuni punti fondamentali, a cominciare da quelle riforme sulle quali ancora oggi si litiga nonostante gli appelli e gli incoraggiamenti del Quirinale a procedere sulla via dei cambiamenti improcrastinabili. Se guardiamo alle nostre spalle l’unica riforma condivisa che le presunte larghe intese hanno partorito è stata l’abolizione dell’Imu, ma è stato un passaggio talmente travagliato che ancora gli italiani non hanno capito se era tutto un imbroglio e se l’Imu è davvero sparita o se ha solo cambiato nome.
Che cos’altro è stato anche solo progettato all’ombra delle larghe intese? La riforma istituzionale? Quella della giustizia? Quella elettorale? Il bilancio delle cose fatte è assai magro. E ora, con Enrico Letta affiancato da Angelino Alfano, certo l’espressione “larghe intese” non è più utilizzabile, visto che parte del centrodestra si è tirato fuori. Ernesto Galli della Loggia scrive oggi nel suo editoriale sul Corriere che non sono però gli alafaniani a fare la parte di quella che fu la vecchia Dc ma è il Pd ad incarnare quella funzione stabilizzatrice e in ultima analisi “soporifera” rispetto al cambiamento auspicato (una voglia di innovazione che fu la causa del grande successo, ormai irripetibile, di Berlusconi nel ’94). Galli della Loggia assegna ruoli storici agli attuali partiti di governo molto utili a definire il quadro.
Se al Pd di Letta non resta che comportarsi come la vecchia Dc allora vuol dire che il suo governo farà né più né meno di quello che hanno già fatto gli altri governi con il fiato di Bruxelles sul collo (tra cui l’esecutivo Monti): privatizzazioni, tagli nel pubblico impiego, spending review, sforbiciata alle garanzie sul lavoro, giro di vite sui servizi sanitari gratuiti, ristrutturazione del welfare. Le riforme sono all’ultimo posto del programma, anche se saranno ancora evocate, sempre in funzione di paravento lessicale, soprattutto da Napolitano, il quale cercherà di coinvolgere Forza Italia almeno per salvare la forma, se non la sostanza. E gli alfaniani, se è già il Pd ad occupare lo spazio che sta tra destra e sinistra nella scena (e tanto più ciò avverrà se Renzi sarà il prossimo segretario) non saranno affatto il nuovo centro ma si giocheranno la partita tutta all’interno del recinto elettorale da cui provenivano e provengono i milioni di voti che hanno portato Berlusconi al governo. È in quel campo che si vedrà se c’è spazio per una destra moderna ed europea, se davvero Alfano dispone di uomini e donne capaci di concepire questo disegno o se l’esperimento, derubricato ai tanti casi di trasformismo politico che caratterizza la storia della nostra repubblica parlamentare, è destinato a soccombere.