Dal dolore lancinante dell’addio alla speranza di rinascere dalle ceneri
Le separazioni non sono mai indolori. Quando si scinde un rapporto che dura da lungo tempo c’è sempre un senso di amarezza che ti penetra dentro, ti scuote e pervade. Una lama tagliente che trapassa l’animo. L’attimo di sospensione tra ciò che si lascia (luoghi, amicizie , storie comuni) e ciò verso cui si tende. L’incertezza del futuro. Il malessere dell’abbandono. Forse basterebbe percepire nella sua profondità questo sentimento di commiato e di rottura per non lasciarsi trascinare dal risentimento più cupo. Trasformando , appunto, quel sentimento di dolore, umanamente comprensibile e nobile,nella sua natura introspettiva, in una spietata rivalsa al grido di tradimento. Come se le vicende umane, ma anche quelle politiche, cui la vulgata imperante, spesso esagerando, toglie per definizione ogni afflato che abbia il carattere velato di una umanità anch’essa errante, incerta, esposta alle intemperie e, perciò stesso, imperfetta e debole, non fossero costellate di unioni e divisioni tra uomini, culture, opinioni, punti di vista che assurgono sovente a dogmi. E come se, nelle complesse vicende delle separazioni, la bilancia della responsabilità pendesse sempre e soltanto da una parte. La verità è che quando il rapporto si elide, non è mai l’ultimo atto quello che ne illumina la ragione. È un po’ quel che abbiamo colto nel discorso di Berlusconi alla platea nel giorno della resurrezione di Forza Italia e della scissione del gruppo degli alfaniani: quando il Cavaliere ha detto di non capire le ragioni della rottura e di non farsi una ragione di come si possa sostenere il governo, nel momento in cui gli alleati sono pronti a decretare la decadenza proprio di chi – il capo del maggiore partito alleato – quel governo aveva contribuito a far nascere. Detta così, la recriminazione dell’ex presidente del Consiglio, non fa una piega. È netta, nella sua logica. Se non fosse, però, che proprio il Capo di quel che fu il Pdl aveva sostenuto la necessità di non confondere la situazione giudiziaria, che lo tocca da vicino in maniera così pesante e per molti versi persino ingiusta, da quella legata al sostegno al governo Letta. La verità è che, dal famoso voto di fiducia di poco più di un mese fa, quando con rocambolesca capriola, Berlusconi costrinse i “falchi” del suo partito a votare come chiedevano le “colombe”, l’implosione del Pdl era ormai segnata. Mancava soltanto che fosse certificata. Quel voto segnava un punto di non ritorno. Non solo per il valore che aveva assunto rendendo palese una divisione profonda nel Pdl e una certa ansia di liberarsi del mallevadore, ma anche perché , al di là della facciata, la decisione all’ultimo minuto di Berlusconi di scompaginare i giochi se, da un lato, aveva confermato la sorprendente vitalità del leader nel non farsi mettere facilmente fuori gioco, dall’altro versante, mostrava tutti i segni di un inarrestabile logoramento in termini di capacità di tenuta della unità del partito. Ora che si è giunti al capolinea, varrebbe la pena che i protagonisti della rottura, su entrambi i versanti, ripercorressero a mente fredda le tappe che hanno portato alla dissoluzione del Pdl. Francamente nutriamo il sospetto che questo non avverrà. Per come si sono messe le cose e per quel che si vede nel crescendo rossiniano di una divisione che ormai è diventata contrapposizione (non ci si lasci incantare dal buonismo sbandierato dal leader maximo nel richiamare i fedeli a non commettere l’errore di criminalizzare chi non è entrato in Forza Italia, in vista di una ricomposizione del centrodestra) , e mentre la contrapposizione si va trasformando in caccia aperta ai “traditori” di turno, c’è ben poco da sperare in una rilettura attenta delle colpe di ognuno. Si chiude così, e malamente, un ventennio che pure aveva alimentato tante speranze negli italiani. Come abbiamo scritto più volte, il centrodestra era già finito da un pezzo. Dalla fuoriuscita di Fini e dall’annichilimento della destra. Forse ancor prima. Con l’uscita di Follini, il ridimensionamento di Tremonti, la rinuncia di Casini. All’epoca del predellino, certo. Ma ancor più, verosimilmente, quando ha rinunciato al suo spirito riformatore e fortemente innovativo, lasciandosi fagocitare e lusingare dalla attrazione del Potere che ha fatto aggio sullo stesso pragmatismo, che pure ogni governo deve saper praticare; quando ha smesso di cementare, in una nuova e suggestiva declinazione di futuro, le culture del Novecento che , nel lontano 1994 , con la discesa in campo di Berlusconi, erano confluite nella nuova alleanza; quando , per innumerevoli e controversi motivi, si è ridotto a terra di lillipuziani, come un Gulliver trattenuto, imbrigliato, imbozzato, e i nanetti a danzargli attorno impedendogli ogni movimento; quando, infine, ha bruciato sull’altare di un leaderismo, a forte connotazione personale e padronale, ogni residua essenza di democrazia partecipativa ; quando tutte le regole associative sono saltate e, grazie ad una legge elettorale assurda e incostituzionale, i candidati al Parlamento sono stati decisi da una ristretta cerchia oligarchica, fiancheggiante il Capo. La verità è che il Pdl , come partito vero o come, più semplicemente, lo avevamo immaginato, non è mai nato. Ora che si avverte un acre odore di cenere , sarà bene non lasciarsi prendere dallo scoramento. Viviamo tempi di fratture, scomposizioni, separazioni, rotture. È un fenomeno profondo e diffuso. Non riguarda soltanto il centrodestra, come sui può osservare. In politica, come nella fisica, i vuoti prima o poi vengono riempiti da qualcuno o da qualcos’altro. Un nuovo centrodestra sarà possibile? Vedremo. Ad una condizione: che il suo dna non sia infestato dal virus della ambiguità.