Per il sistema dei partiti ci avviciniamo a quello che i politologi chiamano “branching point”
Analizzare il momento storico attuale non è facile. Se poi guardiamo ai problemi di casa nostra, alla crisi ed ai suoi effetti, alla perdita di senso della politica, alla disarticolazione di coesione che attraversa orizzontalmente e verticalmente i partiti, a destra come a sinistra dello schieramento, si coglie una sensazione di spaesamento e di vuoto. È come se l’ago della bussola fosse impazzito. Il magnete non attrae più, viene soppiantato dal vortice. Eppure, l’idea che il corso storico sia scandito da cesure e da situazioni di eccezione fortemente dinamiche, veri e propri punti di rottura che interrompono le routine istituzionali, punti di biforcazione e momenti di metamorfosi in cui si condensano processi di distruzione e di ricostruzione sociale, è ricorrente nel pensiero politico e nella letteratura sociologica classica e contemporanea. In un bel trattato di politologia, pubblicato da il Mulino, una decina di anni fa, Silvano Belligni ricordava come questi momenti siano stati volta a volta concettualizzati come “età critiche” (Saint-Simon), “entusiasmi collettivi” (Durkheim), “situazioni democratiche” (Gramsci), “situazioni rivoluzionarie” (Lenin), “momenti dionisiaci” (Freud, Nietzche), “ stato di eccezione” (Schmitt), “stato di stress” (Habermas) e più di recente come “nuovo inizio”, “momenti formativi”, “hard times” e simili.
Secondo lo studioso, “l’idea che accomuna queste formulazioni, al di là della varianza semantica che le connota, è che in tali scenari ciclicamente ricorrenti, intercalati e contrapposti ad altri più statici in cui prevalgono la quotidianità e la continuità, l’azione politico-sociale esibisce una particolare effervescenza e intensità, un ritmo più accelerato, un carattere corale ed epico, un orientamento esplicitamente distruttivo o ricostruttivo, ma comunque radicalizzato”. Possiamo affermare senza alcun dubbio che ci troviamo in una di queste fasi? Ossia, in una accertata e ineluttabile condizione di sospensione della routine, in cui, secondo le categorie classiche del pensiero politico, “l’azione collettiva tende a presentarsi esplicitamente come unificazione organica ( e non come mera sommatoria) degli individui” ? Osservando i processi e i macrofenomeni indotti dalla Grande Crisi, quelle teorie sembrano di primo acchitto difficilmente applicabili. Di ben altro tenore è, evidentemente, la loro presa, in termini di analisi, su momenti e date che hanno segnato epocali sconvolgimenti, periodi rivoluzionari, tempi topici di distruzione e di rigenerazioni.
Si pensi a Lutero che affigge le 95 tesi sulla porta della cattedrale di Wittenberg, alla presa della Bastiglia, all’assalto ala Palazzo d’inverno, al crollo del muro di Berlino, alla distruzione delle Twin Towers: la carica simbolica di tali avvenimenti semplifica quest’assunto. Eppure, fatte le debite proporzioni, ci sembra di scorgere qualche analogia tra la crisi che attraversiamo e quei momenti di cesura che hanno scandito la storia degli Stati e delle Nazioni. Insomma, forse non ancora con sufficiente consapevolezza, ci stiamo anche noi avvicinando al branching point, al punto di biforcazione. Vale per l’Europa, dove le politiche di austerità imposte dalla Germania, per la prima volta, vengono apertamente contestate dagli Stati Uniti, mentre cresce la sofferenza delle popolazione europee, impoverite e angosciate dalla una crisi economica, sociale e produttiva, che si protrae ormai da cinque lunghi anni senza che si intraveda uno spiraglio di luce.
Vale per la Chiesa di Roma che, nel linguaggio esemplificativo e suadente di Papa Francesco, con l’ esempio di una personalità straordinaria, capace di riscuotere in così poco tempo una fiducia incondizionata, offre al mondo intero una nuova interpretazione della realtà e si prende la responsabilità di dichiarare la rottura con il passato, di formulare le condizioni di un nuovo inizio e di ridefinire le mete collettive di una cristianità in movimento. Vale nel pur desolante quadro in cui annaspano i partiti italiani, per metà figli del Novecento, per l’altra metà frutto avvelenato delle moderne tecnologie della comunicazione, del web. Qui, invero, la natura della rottura è forse meno decifrabile con le richiamate categorie analitiche. Purtuttavia, al netto delle contrapposizioni personali e di leadership che agitano i partiti, e delle ragioni ormai conosciute che stanno portando all’implosione il Pdl, il Pd e Scelta Civica (vale a dire i partiti che sostengono il governo delle “larghe intese”), non è affatto escluso che dalla decomposizione degli equilibri finora esistenti non emergano alternative al momento non immaginabili. Lo svolgimento e l’esito della crisi non sono mai meccanicamente prevedibili. Al contrario, la crisi evoca quasi sempre una situazione conflittuale, dinamica, aperta a sbocchi alternativi. Gli equilibri diventano multipli. Innovazione e restaurazione si fronteggiano dialetticamente, anche se alla lunga una soluzione prevale sull’altra, relativamente. Contano molto, come è ovvio, i rapporti di forza. Ma più dei numeri conta la qualità della direzione politica. La sola cosa, in definitiva, che possa restituire senso al cambiamento ed offrire dignità e valore al concetto stesso di rottura.