Per rinascere credibile, la destra ammetta le proprie colpe
Semmai dovesse rinascere una destra (di centrodestra ne esistono addirittura tre), dovrebbe guardarsi dal commettere l’errore in cui è incorsa la rediviva e un po’ furbetta Forza Italia, che ha preteso di ripresentarsi vergine all’appuntamento con la drammatica attualità “dimenticando” che dal 1994 al 2009 è stata il perno di un sistema di alleanze che ha governato a lungo l’Italia con An, Lega e Ccd. Un accenno di autocritica da parte di Berlusconi non avrebbe guastato. Ma il copione è rimasto immutato e così ancora una volta il Cavaliere ha scaricato sugli antichi alleati e sulla farraginosità di un apparato istituzionale obsoleto e ridondante le colpe di tante riforme puntualmente annunciate ma mai realizzate. Peccato, perché accollarsi qualche responsabilità avrebbe fatto bene alla causa (persa) della rilegittimazione della politica. La gente ha ormai in odio lo scaricabarile e le denunce contro i soliti ignoti. Da chi ha governato è lecito attendersi il consuntivo della propria attività e l’assunzione per intero della propria responsabilità. Ma tant’è. Una destra che rinascesse, dovrebbe perciò farlo più e meglio di altri. Innanzitutto per serietà verso gli elettori e poi perché è probabile che alcuni nodi odierni siano conseguenze proprio di quegli errori.
Non è questa la sede per inventariare gli svarioni e le omissioni della destra nell’azione di governo. Sono certamente tanti e sicuramente hanno contribuito ad omologarla alle altre forze politiche scolorendone ogni specificità e, con esse, la spinta emotiva a sceglierla comunque. C’è chi sostiene che la destra abbia smarrito la propria vocazione “legge ed ordine” nella difesa di Berlusconi dagli attacchi delle procure. C’è del vero, anche se a costoro andrebbe ricordato che negli “anni di piombo” la destra non lesinò critiche a quei settori militanti di magistratura apparsi già allora molto selettivi nell’accertare le responsabilità sul clima di guerra civile strisciante che si respirava nel Paese. Per altri la sua crisi è imputabile ai continui cedimenti su questioni particolarmente sentite come il giudizio sul fascismo “male assoluto”, l’apertura al voto agli immigrati, il dietrofront sulle questioni etiche. È vero, anche queste posizioni hanno contribuito allo spaesamento di un elettorato sempre più attratto dal carisma gladiatorio di un Berlusconi implacabile nel declinare in maniera persino ossessiva il suo anticomunismo evergreen. Esse, tuttavia, non sembrano afferrare la causa profonda che ha spinto la destra a confluire in un altro contenitore, esserne masticata e quindi espulsa senza alcuna resistenza.
Forse, il punto vero di rottura andrebbe individuato nell’aver abdicato alla funzione di custode dell’unità, dell’identità e della solidarietà nazionale. Del resto, era il culto della nazione – intesa come continuità storica, territoriale, generazionale – il tappo che teneva a galla lo scafo della destra. Una volta saltato, ha imbarcato acqua fino ad restarne sommerso. An non ha pagato l’ansia da prestazione, ma quella da legittimazione. La nuova condizione di partito di governo l’ha quasi costretta al ruolo di guardiano della stabilità, davvero troppo largo per una forza appena uscita da oltre mezzo secolo di opposizione a tratti antisistema. Da qui la tattica del quieto vivere appena interrotta da sussulti antitremontiani non seguiti, tra l’altro, da decisioni conseguenti. In nome della governabilità, la destra ha ingoiato soluzioni come devolution e federalismo, ha balbettato quando gli egoismi localistici hanno aggredito il Mezzogiorno, è rimasta a guardare quando insieme all’acqua sporca del centralismo parassita si gettava via anche il bambino dell’autorità dello Stato. Mediando giorno dopo giorno, la destra ha così finito per accettare la constituency dell’asse Forza Italia-Lega fondata sul primato del Nord nella sua accezione geopolitica di macroregione autonoma e virtuosa, armata di un blocco sociale di riferimento (partite Iva, professionisti, lavoratori del privato) e perciò capace di dettare tempi e soluzioni all’intera comunità nazionale. È stato soprattutto questo ad aver trasfigurato il Dna della destra, fino ad allora l’unica ad aver sempre pensato ed agito come forza realmente nazionale, pur avendo nel Centrosud il proprio radicamento elettorale.
Oggi, le dimensioni e le cause vere della crisi impongono il recupero di una cultura nazionale. È solo questo e non anche ragioni di piccola bottega elettorale a militare in favore di un ritorno della destra. Ma il suo eventuale protagonismo può nascere esclusivamente come conseguenza del suo coraggio nell’assumersi le proprie responsabilità. Solo dopo aver adempiuto a questo elementare dovere di verità storica e di trasparenza politica, la destra può credibilmente intestarsi l’orizzonte di un nuovo patto costituente tra il popolo e la sua storia e tra lo Stato ed i suoi territori. E sventolare il vessillo dell’interesse nazionale oggi a mezz’asta per effetto dello strapotere di organismi sovranazionali privi di legittimazione democratica. La sfida, insomma, consiste nel restituire peso e dignità all’Itali al tempo della crisi globale. E solo una destra autenticamente nazionale e popolare può farlo. Up patriots to arms, engagéz-vous!