Privatizzazioni, dubbi da destra e da sinistra: terapia d’urto contro il debito o svendita in stile Britannia?
Le privatizzazioni targate Letta per la riduzione del debito pubblico a poche ore dall’annuncio finisicono subito nel mirino: critiche tecniche da parte degli esperti e allarmi politici per la filosofia dell’operazione. La decisione di dismettere otto società pubbliche è una mossa che vale fra i 10 e 12 miliardi di euro, la più clamorosa è la cessione del 3% dell’Eni, il gigante del petrolio e del gas (che da sola porterà 2 miliardi) «il cui controllo», chiarisce Letta, «rimarrà comunque ben saldo nelle mani dello Stato». Oltre all’Eni sono interessate Stm e Enav per le partecipazioni dirette e Sace (Cdp), Fincantieri (Cdp), Cdp Reti (Cdp), Tag (Cdp) e Grandi Stazioni (Fs) per quelle indirette. Nelle casse del Tesoro, però, arriverà solo la metà della cifra totale mentre il resto andrà a sostenere il patrimonio della Cdp, che aveva già programmato la cessione parziale in mani private. Più che a incidere sul moloch del debito pubblico italiano – la cifra che lo Stato incasserà è irrisoria – la strada scelta dal governo sembra ispirata ad altri criteri. Serve, tanto per cominciare, a presentarsi davanti all’Europa in una posizione di maggiore forza per cercare di richiedere la clausola sulla flessibilità degli investimenti bocciata nei giorni scorsi dall’Ue. Il ministro Saccomanni oggi a Bruxelles per l’eurogruppo potrà illustrare, dati alla mano, l’inversione di tendenza del governo dopo il caso di Alitalia-Poste. L’operazione non piace né a destra né a sinistra: questa mattina due quotidiani che più distanti non potrebbero essere come Libero e il Manifesto attaccano frontalmente le presunte privatizzazioni sulla quali Capezzone non ha fatto sconti (è come vendere l’argenteria di famiglia agli usurai). «Le privatizzazioni non ci fanno ripartire!», titola il quotidiano diretto da Belpietro che parla di flop del governo e interpreta il 50 per cento del ricavato che andrà alla Cdp come una pericolosa riedizione dell’Iri. Il manifesto titola in prima pagina “Una sporca dozzina”, «i precedenti di Telecom, Ilva e Alitalia non insegnano nulla. Ora Letta svende tutto: Eni, Fincantieri, Enav, Snam, Sace, Stm, Grandi Stazioni. Per recuperare 12 miliardi di euro lo Stato rinuncia a partecipazioni in società redditizie».
Terapia d’urto per abbattere il debito o svendita? Il dubbio è forte. Riavvolgendo il nastro viene in mente il clamoroso caso del Britannia. Siamo nel 1992, in pieno urgano “Tangentopoli” quando il governo decise la svendita di molte azienda mettendo “all’asta” persino la Banca d’Italia. I dettagli messi a punto sull’ormai celebre panfilo Britannia portarono la cordata anglo-americana a mettere le mani sul 48 per cento delle aziende italiane. A bordo c’era il fior fiore della finanza mondiale e anche quale italiano (tra i quali Mario Draghi, allora direttore delegato del ministero del Tesoro, il dirigente dell’Eni Beniamino Andreatta e il dirigente dell’Iri Riccardo Gall. Anche allora le chiamarono privatizzazioni.