Sotto processo per aver “parlato male” dei partigiani: la Peirano si difende con le parole di Napolitano

14 Nov 2013 16:59 - di Francesco Signoretta

Processata per aver “parlato male” della Resistenza. E quindi per vilipendio. La storica e scrittrice Liliana Peirano, “colpevole” di aver scritto Il male assoluto, un libro sulle pagine buie della lotta partigiana,  si difende citando il discorso di insediamento di Giorgio Napolitano del 2006. Le parole del presidente della Repubblica sono una fonte

di prova, perché invocavano «basi comuni di memoria e di identità condivisa», spiegando che «non bisogna ignorare zone d’ombra, eccessi e aberrazioni». Ed era proprio questo l’obiettivo di Liliana Peirano, far emergere vicende su cui c’è silenzio, un silenzio che qualcuno vuol continuare a imporre. E un po’ l’operazione-verità che ha visto protagonista Giampaolo Pansa, il primo a rompere i tabù sui partigiani. La Peirano il 19 novembre sarà giudicata, come detto, dal tribunale di Cuneo per Il male assoluto, un volume dove ripercorre episodi della lotta partigiana. Secondo il capo d’accusa l’opera «vilipendiava le forze di liberazione delle Brigate Garibaldi». Gli avvocati difensori, Mauro Anetrini e Vincenzo Griva, affermano però che non si discute la ricostruzione dei fatti, ma il giudizio storico dell’autrice. Sotto accusa alcune sue espressioni come: «I due lontani anni 1943 e 1945 ci hanno fatto sperimentare attraverso le formazioni Garibaldi la dittatura bolscevica comunista, protrattasi per anni per giungere fino a i giorni nostri, togliendo a gran parte d’Italia libertà di pensiero, di azione e di cultura». O l’equiparazione dei partigiani ai ladri, con l’attribuzione anche di uccisioni. Basterebbe leggere il Sangue dei vinti di Pansa per farsi un’idea ed evitare un processo che sa di fazioso. Non a caso Pansa è stato “processato” non dal tribunale ma dai “compagni”. Che a suo tempo “processarono” anche Renzo De Felice, il più grande storico dell’era contemporanea. Tutti alla sbarra ideologica per aver detto verità scomode.

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