Bankitalia verso la “privatizzazione” per decreto: la battaglia (solitaria) di Fratelli d’Italia
Il regalo di Natale fatto dallo Stato alle Banche: si potrebbe sottotitolare così l’affaire Bankitalia. C’è infatti una notizia passata quali inosservata ed è una norma contenuta all’interno della legge di Stabilità che dà il via libera alla rivalutazione del capitale di Palazzo Koch. Il provvedimento è stato deliberato dal Cdm guarda caso nella riunione del 27 novembre scorso, a fari spenti, in grande fretta e mentre i riflettori erano puntati sulla defenestrazione di Sivio Berlusconi. Lo scopo era stato descritto come la disperata ricerca di risorse con cui finanziare il taglio della seconda rata dell’Imu, ma il collegamento tra le due cose è stato poi smentito da Saccomani. Di sicuro l’operazione a regime, ossia quando il processo di riassetto azionario sarà completato, dovrebbe produrre un gettito tributario di circa 1 miliardo, perché il Dl stabilisce che le rivalutazioni iscritte a bilancio saranno assogettate a un’imposta sostitutiva del 12%.
Questa brusca accelerazione imposta da un governo senza attendere il giudizio del Parlamento non è piaciuta nella forma e nel contenuto ai parlamentari di Fratelli d’Italia, che stanno combattendo una battaglia solitaria per fermare questa norma prima che diventi decreto. Gli assetti proprietari di via Nazionale sono una questione delicata, riguarda un patrimonio pubblico, cos’è questa fretta? Poiché attualmente il capitale sociale di Bankitalia è di 156 mila euro ed è detenuto al 95% dalle banche italiane, l’intento è di fornire un po’ di ossigeno ai disastrati bilanci delle banche.
Il coordinatore di FdI Guido Crosetto ha denunciato subito questa “privatizzazione accelerata” (e mascherata) dell’Istituto di via Nazionale. «Partiamo dalle parole di oggi del governatore Visco», argomenta l’esponente di FdI, «che ha rassicurato che la rivalutazione del capitale della Banca d’Italia è un’operazione che “non tocca l’indipendenza della banca centrale”, ha detto in audizione al Senato». Dunque, spiega Crosetto, Visco «si è lasciato scappare involontariamente una verità e ha detto che il patrimonio dell’Istituto di Via Nazionale è italiano, cioè pubblico, e che in caso di scioglimento della Banca d’Italia dovrà tornare allo Stato. Ha precisato, inoltre, che è pubblico tutto ciò che eccede i 7,5 miliardi che verranno distribuiti alle banche. Peccato – prosegue – che di tutto ciò non ci sia traccia nel decreto legge e peccato che non si capisca una cosa: se il patrimonio di Bankitalia è pubblico perché devono essere regalati 7,5 miliardi di euro a dei privati»? Morale, Visco si sta arrampicando sugli specchi «per giustificare un passaggio ingiustificabile e che, infatti, non ha eguali nell’Unione europea». Ma il governo tace. «Preoccupante il silenzio di tutte le forze politiche, incita il presidente dei deputati, Giorgia Meloni, «dov’è Grillo? Cosa ne pensa Renzi? Perché su questi temi che toccano i veri poteri forti ci troviamo a combattere sempre da soli?». Ma c’è un altro aspetto inquietante ed è «la convocazione, passata in sordina, dell’assemblea straordinaria di Bankitalia, convocata per il 23 dicembre per deliberare le modifiche allo Statuto per varare la rivalutazione delle quote in mano alle banche. Tutto questo – stigmatizza Crosetto- testimonia che si dà per scontato che Camera e Senato approvino e trasformino il provvedimento in decreto. Tutto ciò prefigura un grave vulnus istituzionale e costituzionale». Aggiunge poi un particolare curioso a proposito del ruolo della Banca centrale europea. Visco, in audizione in commissione Finanze al Senato, ha definito «non vincolante» il parere della Bce in materia, «un parere che infatti non è ancora arrivato anche per i rilievi avanzata dalla Bundesbank: ora delle due l’una, la Bce va ascoltata quando ordina di tassare gli italiani e non va presa sul serio quando dà un parere su Bankitalia? Tutto concorre,allora, verso un unico obiettivo: il decreto va fermato. Di fatto, se passerà, Bankitalia sarà privata e i soci – le banche – potranno vendere parti di quote di partecipazione anche a banche straniere, che rischiano, dunque, di diventare azionariato di riferimento della nostra banca centrale.