I libri della settimana. Il Balbo di Guerri, le atrocità dei Khmer, la prigionia di Quirico, le amiche di Ferrante. E un interrogativo sul digitale: fa male o bene?
Ritorna in libreria la biografia di Italo Balbo (Italo Balbo, Bompiani, pp. 638, euro 24) firmata da Giordano Bruno Guerri: modernizzatore e innovatore, con la sua trasvolata atlantica meritò l’intitolazione di una strada a Chicago. Non a caso, del resto, Balbo preferiva gli Stati Uniti alla Germania. Ma l’intento dell’autore non è quello di giustificare o condannare il fascista Balbo, l’intento è solo quello di “dare a Balbo quel che è di Balbo”.
È un romanzo che riannoda i fili di un passato di dolore e violenza quello scritto da Madeleine Thien (L’eco delle città vuote, 66Thand 2nd, pp. 230, euro 16) la cui protagonista rievoca i massacri in Cambogia dei Khmer rossi nel 1975, tornando dal Canada nei luoghi dove è stata sterminata la sua famiglia. Lo spunto glielo dà la sparizione del suo collega Hiroji, che in Cambogia cerca il fratello James, medico della Croce Rossa, di cui non si sa nulla da anni. Il romanzo racconta una spietata dittatura vista con gli occhi di una bambina, che vive il momento in cui, sotto il potere di Pol Pot, la popolazione venne deportata nelle campagne e costretta a lavorare nelle fattorie comuni, pena la morte.
Uno studio controcorrente sull’overdose di strumenti digitali è quello di Manfred Spitzer (Demenza digitale, Corbaccio, pp.332, euro 19): pagine in cui l’autore, uno psichiatra, intende dimostrare come lo sviluppo dell’autocontrollo e della capacità di organizzarsi sono ritardati dalla possibilità di ottenere tutto e subito con un clic. La competenza digitale tanto vantata nelle scuole, dunque, potrebbe alla lunga rivelarsi un boomerang e il bambino multitasking, in definitiva, potrebbe diventare un individuo incapace di dare concretezza alle relazioni sociali.
La cronaca di una prigionia in Siria durata cinque mesi dopo è raccontata ne Il paese del male (Neri Pozza, pp. 176, euro 15) di Domenico Quirico e Pierre Piccinin da Prata, consegnati il 13 aprile 2013 dai miliziani dell’Armata siriana libera a un gruppo di incappucciati della brigata Abu Ammar. Cinque mesi di miserevole ingiustizia, trascorsi in stanzette sudice, dove il carceriere ordina di ripetere complicate parole arabe, mulinando il bastone, oppure si diverte a fingere di sparare alla tempia del prigioniero prima di andare a dirigere la preghiera, in prima fila, al suo Dio. Mesi in cui si diventa non il nemico da rispettare, ma il cristiano da disprezzare, l’occidentale da schernire con un riso stridente e lacerante; mesi in cui non resta che la nausea di appartenere al genere umano.
Si completa la trilogia della lunga storia dell’amicizia tra Elena e Lila con Storia di chi fugge e di chi resta (E/O, pp. 382, 19,50 euro) di Elena Ferrante. Prima bambine, poi ragazze e infine donne segnate dalle rispettive esperienze, Elena e Lila hanno provato a recidere i legami col rione povero di Napoli dove sono nate e cresciute, guardandosi a distanza, imitandosi, sviluppando tra loro inconfessabili rivalità.