La Terza Repubblica secondo Matteo somiglia (per ora) maledettamente alla Prima
Passo dopo passo, intervista dopo intervista, Matteo Renzi ci sta riaccompagnando tra le braccia della Prima Repubblica. Tranquilli, non è questo il suo obiettivo. Non è un restauratore – mestiere che pure richiederebbe qualche quarto di nobiltà politica – ma solo un neoleader che ha sufficiente fiuto per accorgersi che non può agire diversamente senza consegnarsi mani e piedi al duo Letta-Alfano, operante sotto l’alto patrocinio del Quirinale, ma che non ha sufficiente tempo per programmare una personalissima “lunga marcia” nelle istituzioni mentre si trova fuori dal Parlamento. Da qui le sue contraddizioni: dice di essere un bipolarista convinto, ma nei fatti è costretto a schierare il suo Pd in una posizione fortemente dialettica nei confronti del governo “amico”; dichiara di volere una legge elettorale che un minuto dopo lo spoglio delle schede consenta di definire chi ha vinto e chi ha perso, ma nel frattempo che a Palazzo Chigi siede appunto il fratello-coltello non ha remore a svolazzare da un polo all’altro in cerca di maggioranze variabili.
Era così anche ai tempi dei governi balneari, di garanzia, “ponte”, di scopo e di tutto quanto la fervida fantasia italica riusciva a partorire in quegli anni senza ovviamente trascurare i vertici di maggioranza, i tavoli con l’opposizione ed i convegni correntizi rigorosamente celebrati dai capi dc – chissà perché – nelle più rinomate stazioni termali. Era l’ovattata liturgia della Prima Repubblica, necessitata non solo dal feroce bipolarismo imposto dal Muro di Berlino ma anche da un sistema elettorale che regalava ai partiti sovranità assoluta sull’utilizzo del consenso ricevuto. La premiership era poco più di una seconda scelta rispetto alla leadership, perché ad azionare davvero la leva del governo, più che chi lo presiedeva, era chi guidava il partito.
Renzi è fin troppo consapevole che il canovaccio è cambiato, anzi è del tutto capovolto. Fare concorrenza al governo avendo dalla sua il Pd è come battersi in duello con una spada di legno. I partiti attuali sono ormai ridotti a piccole bolle mediatiche, privi come sono – chi più, chi meno – di reale radicamento territoriale e di forza progettuale. L’elezione diretta ad ogni livello istituzionale e la conseguente personalizzazione della politica hanno finito per delegittimarli agli occhi dei cittadini più e prima degli scandali. Insomma, non è questo il giocattolo dei sogni del giovane Matteo, che infatti nulla fa per nascondere che vuole quello stretto tra le mani del meno giovane Enrico. E nell’attesa di strapparglielo, ci impone il gioco dell’oca per riportarci alla casella precedente, da cui pensavamo di essere definitivamente usciti.
Metafore a parte, sarebbe del tutto fuori luogo dire che Renzi in realtà sta giocando col fuoco. È invece plausibile sostenere che il gioco non potrà durare a lungo e non solo perché il tempo non lavora per il Rottamatore ma perché i morsi della crisi ed il livello dell’esasperazione popolare non autorizzano più nessuno ad esibirsi in equilibrismi tattici o in camarille di Palazzo. Ora è ancora presto, ma tra non molto Renzi dovrà scegliere tra la strada di un appoggio reale e leale al governo in carica e quella di decretarne la fine per inadeguatezza politica. Terze vie non esistono. Almeno, non più e non ora. Del resto, solo i marpioni della prima Repubblica riuscivano a conservare la botte piena avendo la moglie ubriaca. Ma qui siamo nella Seconda e Renzi, che sia un marpione di quelli veri, lo deve ancora dimostrare.