Maria Cristina di Savoia proclamata beata. E a Napoli, a centinaia, gridano «Viva il Re»
Dai giorni dell’assedio di Gaeta, tra il novembre del 1860 e il gennaio del 1861, non si salutavano più. Ma la beatificazione di Maria Cristina di Savoia, andata in sposa di Ferdinando II e divenuta regina delle Due Sicilie, ha spinto fianco a fianco i discendenti dei Borbone e quelli dei Savoia–Aosta nella basilica di Santa Chiara a Napoli, gremita, sabato 25 gennaio, da quasi duemila persone. La sera precedente nella cena ufficiale nell’esclusivo Circolo dell’Unione, disertata da Amedeo d’ Aosta, Borbone e Savoia si sono però seduti in tavoli separati e lontani, anche se il Principe Carlo di Borbone si è prodotto in un impeccabile baciamano a Gabriella di Savoia: dopo oltre 150 anni di gelo, può ben dirsi una galanteria dal significato storico. In molti si sono comunque commossi ad ascoltare i passaggi più significativi dell’omelia del cardinale Sepe: «Napoli che accolse Maria Cristina come Regina nel 1832, assieme al suo sposo Ferdinando II, oggi gode perché la Chiesa ha riconosciuto l’ eroicità delle sue virtù e la presenta alla venerazione dei fedeli come maestra del popolo cristiano». Alcune centinaia di simpatizzanti neoborbonici hanno salutato i Principi Carlo e Camilla all’uscita della Basilica di Santa Chiara con fiori, applausi, e grida di «viva il Re».
Certe manifestazioni di “nostalgia” borbonica vengono di solito bollate dalla grande stampa e dalla generalità dei media come fenomeni di mero folclore. È una grave sottovalutazione di un disagio dalle profonde profonde radici storiche nonché un malessere alimentato da piaghe che non sono mai state realmente sanate. E c’è seriamente da chiedersi perché ancor oggi, a 66 anni dalla nascita della Repubblica, centinaia di persone sentano il bisogno di gridare «viva il Re». Molti di loro avranno sicuramente letto i libri di Carlo Alianello, l’autore de L’Alfiere, La conquista del Sud, L’eredità della priora . «I Borbone – affermava lo scrittore napoletano – , così s’è detto, puntellavano il loro regno con le tre effe: Festa, Farina, Forca. I piemontesi invece, più economici, largivano solo la forca». A questa triste memoria storica va aggiunto – ed è sicuramente il fatto più devastante – il sostanziale fallimento di oltre sessant’anni di politiche per il Mezzogiorno. Anche qui conviene citare un libro, questa volta recentissimo: Se muore il Sud, di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo: «Fa venire il sangue al cervello, a chi come noi ama il Mezzogiorno, ripercorrere le occasioni perdute di ieri e di oggi. Ma che razza di classe dirigente è quella che lascia affondare un pezzo dell’Italia?». Secondo i dati Svimez, il divario tra Nord e Sud sta oggi riprecipitando alle percentuali degli Cinquanta. E procura un profondo scoramento apprendere che ci sono regioni delle Bulgaria e di altri Paesi ex comunisti che vantano oggi un reddito pro capite superiore a quello delle regioni dell’Italia meridionale. Non c’è allora molto da sorridere se oggi a Napoli c’è chi grida “via il Re”: alle predazioni da parte dei piemontesi si sono aggiunti i fallimenti della Repubblica.