«Mi dimetto, anzi no»: il record del sindaco dell’Aquila, arrivato al quarto dietrofront
Anche stavolta il sindaco dell’Aquila ci ha ripensato. L’11 gennaio Massimo Cialente aveva dato le dimissioni da sindaco dopo la bufera giudiziaria che aveva travolto la sua giunta di centrosinistra sulle tangenti per gli appalti del dopo-sisma. Oggi il dietrofront ufficiale. Si prepara, infatti, come confermato dai suoi fedelissimi, l’annuncio di un Cialente-bis. A dire il vero, alle dimissioni di Cialente nel capoluogo abruzzese credevano in pochi. Chi lo conosce bene sa che che l’attaccamento alla poltrona per l’espontente Pd è più forte di ogni sussulto di orgoglio. È vero pure che Cialente non è indagato ma l’inchiesta ha visto l’arresto di quattro ex amministratori del Comune e ha portato alle dimissioni del suo vicesindaco, Roberto Riga (lui sì indagato). Cialente si era sentito coinvolto politicamente e quell’indagine ha gettato un’ombra molto pesante sulla politica del centrosinistra abruzzese. I suoi fedelissimi fanno sapere che, formalmente, aveva comunque tempo fino al 31 gennaio per riflettere e ritirare le dimissioni: il tempo per l’ennesima imbarazzante sceneggiata. Non è la prima volta che Cialente sbatte la porta. In due occasioni, in sette anni di governo dell’Aquila, il sindaco ha rassegnato le dimissioni. Nella prima le ritirò. Si dimise quasi al termine del suo primo mandato, nel marzo 2011, dopo un lungo periodo in cui la sua maggioranza aveva perso pezzi e non riusciva a votare i provvedimenti. Aveva occupato simbolicamente la sede del Municipio, devastata dal sisma, lamentando il ritardo nell’arrivo dei fondi per la ricostruzione. Aveva poi ritirato le dimissioni alla scadenza dei 20 giorni previsti. Concluso il primo mandato (quinquennio 2007-2012), Cialente fu rieletto nel maggio 2012 al ballottaggio, con il 59,20% dei voti. Solo un mese dopo una nuova minaccia: «Se Chiodi (presidente della Regione Abruzzo eletto con il centrodestra) rimane come commissario per la ricostruzione vado via io». A maggio 2013, sempre per il mancato arrivo dei fondi per la ricostruzione, la clamorosa protesta – con minaccia di dimissioni – della fascia tricolore rispedita al Quirinale e delle bandiere tricolori ammainate dagli uffici pubblici. L’anno scorso, a settembre, dopo nuovi sfaldamenti nella sua coalizione, un nuovo avvertimento: «Non ho più la maggioranza, se si va avanti così sarà giusto restituire la parola ai cittadini». L’ultima sceneggiata l’11 gennaio. Ma anche stavolta ha vinto il richiamo della poltrona.