Renzi non lo sa, ma sta per diventare l’erede del Cavaliere
È difficile prevedere chi, tra Berlusconi e Renzi, guadagnerà di più dall’accordo stipulato. Non v’è dubbio che nell’immediato sia il Cavaliere ad incassare il miglior dividendo: è tornato centrale, ha visto con soddisfazione l’ex-delfino Alfano agitarsi nella tonnara dell’annunciata riforma elettorale, ha ricompattato una Forza Italia in perenne crisi di nervi e infine – grazia ai conquistati galloni di padre costituente – è uscito dalla cronaca giudiziaria in cui lo aveva ricacciato la condanna per frode fiscale per staccare un biglietto di sola andata per la storia. Il Rottamatore ha invece investito sul medio-lungo periodo e quindi, per incassare la parte che gli spetta, dovrà attendere la fine dell’era berlusconiana che – grazie all’accordo stipulato e sempre che il Parlamento lo ratifichi – può essere molto più vicina di quanto si creda.
Il berlusconismo ha generato nel nostro sistema politico un bipolarismo ad personam: o si sta con il Cavaliere o contro di lui. Inutile soffermarsi sulle cause e sulle responsabilità di quest’anomalia tutta nostrana. Di certo, alla navigazione in mare aperto la sinistra ha sempre preferito il comodo anfratto psicopolitico scavato nella paura del Caimano e quando qualcuno – come D’Alema – ha tentato di uscirne, è stato regolarmente stoppato a suon di appelli, girotondi, adunate oceaniche e minacce. Berlusconi ne ha ovviamente approfittato trasformando ogni elezione in una scelta di campo senza appello in cui si fronteggiavano, da una parte, la libertà e, dall’altra, la pesante eredità comunista con i suoi annessi e connessi. È nata così la logica del continuo referendum su stesso che ha finito per condizionare le radici stesse del bipolarismo italiano conferendogli quei connotati personalistici che restano il vero ostacolo ad una sua vera e completa maturazione.
L’accordo tra il Rottamatore e il Cavaliere ha ora buone probabilità di consegnare questa lunga fase alle pagine del passato. Sarebbe infatti ben strano se alle prossime elezioni continuasse a riecheggiare il refrain ascoltato lungo tutto l’arco temporale della Seconda Repubblica dopo che i leader dei due partiti “nemici” hanno condiviso un percorso di riforme e per di più nel corso di un incontro avvenuto nella sede del Pd, location tutt’altro che casuale ma dall’altissimo valore simbolico. Renzi crede di aver disarmato Berlusconi, che in realtà è convinto di avergli solo consegnato in eredità la propria spada. E forse hanno ragione entrambi. Comunque sia, è lecito prevedere che ben poco dell’attuale assetto politico è destinato a restare in piedi se le prossime elezioni politiche saranno celebrate con le regole frutto dell’accordo in un rinnovato quadro costituzionale. È sempre così ogni qualvolta una riforma elettorale incrocia profondi mutamenti sociali e nuove leadership.
Nel 1994 la miscela tra leghismo, manipulitismo, nuovi collegi uninominali e l’irrompere di Berlusconi sul proscenio politico terremotò l’intero sistema politico che solo due anni prima aveva visto la Dc, suo partito perno, ancora in sella forte del voto di un italiano su tre. È probabile che accada la stessa cosa al prossimo giro. La realtà politica nella quale oggi ci specchiamo potrebbe infatti essere già morta e con essa i sondaggi e le simulazioni elettorali.