I leader 2.0 concepiscono la politica come la casa del Grande Fratello

24 Feb 2014 16:39 - di Mario Landolfi

Sarà pur vero – come pontificava Al Pacino nelle vesti di sindaco di New York in City Hall – che “l’inchiostro nazionale è il latte materno della politica” ma l’avvento del digitale con la sua retorica della connessione del villaggio globale ha finito per sovvertire ogni distinzione tra politica e comunicazione fino ad asservire completamente la prima alla seconda. Il risultato è una politica ormai convinta di esaurire il proprio ruolo nel momento in cui si manifesta come semplice annuncio di quel che invece dovrebbe concretamente realizzare. Con l’esplosione dei social network, in particolare di quell’autentica palestra del pensiero (si fa per dire) breve che è twitter, è arrivato il colpo di grazia.

La definizione del Porta a Porta di Bruno Vespa come terza Camera della Repubblica appartiene ormai alla preistoria. Oggi ogni angolo di casa – dalla stanza da letto a quella da pranzo e persino da bagno – è uno spicchio di Camera. Basta un tablet, un po’ di fantasia, un hastag (il tormentone d’altri tempi) più o meno indovinato, un’idea non troppo impegnativa o tale da poter essere compressa in 140 caratteri e il gioco è fatto. Renzi ne è talmente maestro da aver stordito il povero Letta a colpi di #enricostaisereno, cinguettìo assurto a metafora prodromica di un agguato curato in ogni dettaglio. Sempre lui ha scandito dal suo smartphone  uno per uno tutti i passaggi della sua resistibile ascesa a Palazzo Chigi. Sicuramente meno scafato è il suo alleato-concorrente Alfano, reduce da un clamoroso caso di involontario plagio di un #lastradagiusta, utilizzato di recente dai vendoliani che per questo lo hanno sbertucciato in rete per l’intera giornata di ieri.

Il contagio da tweet ha preso un po’ tutti. Non c’è ministro, leader o peone che non si senta 2.0 e non affidi al più istantaneo dei social ogni frammento della propria giornata. Per omaggio alla trasparenza, sostengono. In realtà, per assecondare una esigenza di visibilità/esistenza in vita col minimo sforzo. Annunciare la propria presenza in un convegno o in un talk-show ha l’effetto di una vera mobilitazione. Con la differenza – e scusate se è poco – che prima bisognava riempire una piazza, un cinema o una sede di partito mentre oggi è più che sufficiente affollare il tinello di casa.

È la comodità dell’agorà virtuale che previene anche dal fastidio del contatto fisico tanto caro alla vecchia politica dei comizi e della partecipazione fisica che nel sacro fuoco ideologico riusciva a fondere corpi ed anime, afrori e passioni. Perfino l’espulsione da un movimento o da un gruppo parlamentare non contempla più il rispetto delle procedure dettate dalla severa liturgia cui ci avevano abituati i partiti-moloch del ‘900. La fatwa al tempo della rete è grosso modo quel che la laparoscopia è per la chirurgia. Taglio minimo e decorso rapidissimo. In materia il duo Grillo-Casaleggio è il meglio che si possa trovare su piazza.

Ovviamente, una politica virtuale non può che produrre leader virtuali, cioè prigionieri di un tunnel spazio-temporale che realizza una dimensione parallela in cui i cittadini sono ridotti a campione di sondaggio e dove l’interattività da click ha surrogato la partecipazione individuale e popolare. Non so altrove, ma qui in Italia la miscela tra innovazione tecnologica ed età anagrafica dei maggiori protagonisti della vita pubblica sembra stia trasformando il governo della nazione, l’attività parlamentare e la vita di quel che resta dei partiti in un reality dove alla fine vince il sopravvissuto alle varie nomination (in pratica, espulsioni). È la logica del Grande Fratello applicata alle istituzioni. L’esatto contrario di quel che dovrebbe avvenire nella politica vera, dove ad affermarsi è chi sa aggregare ed includere. E – dopo aver annunciato – decidere.

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