Stessa maggioranza, stesso governo. Ed il Pd si chiede se ne sia valsa la pena

21 Feb 2014 17:29 - di Mario Landolfi

È difficile ma, con un pizzico di fantasia, non impossibile considerare Enrico Letta il vero vincitore di questa confusa e convulsa settimana politica. Defenestrato a furor di hastag rassicuranti e di eccitati tweet renziani, sembra di vederlo l’ex-premier, sprofondato nel divano di casa, mentre si gode la rivincita nel contemplare Renzi, il suo rivale, in affanno sui tempi da rispettare e sui nomi da portare al Quirinale. Forse sorride addirittura nel vederlo in slalom tra quote rosa e dosaggio di tecnici o immaginarlo mentre patteggia con Alfano per fargli mollare la poltrona oppure in speranzosa attesa di poter piazzare un nome all’Economia che vada bene un po’ a tutti, ai mercati, a Draghi, a Napolitano, all’Europa (cioè alla Merkel), al Pd, agli alleati ed alla casalinga di Voghera. Ha cercato la discontinuità, Renzi. Ma non l’ha trovata, come la “Titina” della canzone, immortalata da una réclame che Carosello mandava in onda quando Renzi non era ancora nato, Letta frequentava con profitto l’asilo ma la politica italiana già macinava formule astruse a base di “convergenze parallele”, equilibri “più avanzati” ed altre menate del genere. Più o meno le stesse con cui è costretto a fare i conti l’ex-Rottamatore.

Un risveglio che più amaro non si può per chi, come lui, sperava di salire rapidissimamente al Colle tra due ali di folla plaudente, armato di una lista di ministri di strettissima fiducia, pronto a dimostrare coi fatti e non con le chiacchiere che la Leopolda non è solo la più antica stazione ferroviaria di Firenze ma il laboratorio politico che ha forgiato il più giovane, il più innovativo ed il più audace politico italiano delle due Repubbliche.

La realtà è (purtroppo) ben diversa e Renzi se ne sta accorgendo. Il governo che ha oggi presentato è più o meno una fotocopia di quello che c’era. Non è una questione di nomi o di volti bensì di obiettivi. È vero che spesso il problema è nel manico e che Renzi appare molto più dinamico di Letta, meno compromesso con la logica dei corridoi del potere e dei salotti romani, ma – al netto di questo – neanche lui può vincere lo scudetto se regole e squadra restano più o meno immutate. Non è un Padoan seduto dietro la scrivania di un Saccomanni a poter fare la differenza.

Il dramma personale di Renzi, che è poi l’altra faccia della rivincita di Letta, è tutto qui: nel non riuscire a giustificare con un vero cambio di passo la pugnalata inferta nelle scapole del suo predecessore nonché compagno di partito. La domanda collettiva volteggia nell’aria ma è pronta a schiantarsi sull’asfalto con gran botto: ne valeva la pena? Nel senso che valeva la pena “asfaltare” Letta dopo averlo cloroformizzato a suon di #enricostaisereno per poi ripeterne le mosse? Certo che no. E Renzi è il primo a saperlo, perciò si è messo vanamente alla spasmodica ricerca di quel quid che gli potesse garantire la discontinuità rispetto a prima. Probabilmente, credeva che il manovrare disinvolto tra gli stucchi di Palazzo Vecchio fosse in tutto e per tutto simile al districarsi guardingo tra gli arazzi di Palazzo Chigi. Non è così. Fare il sindaco non è proprio la stessa cosa che fare il premier. Speriamo ne tragga lezione anche per le annunciate riforme, la cui effettiva realizzazione resta tuttora l’unico vero tassello di novità dell’intera vicenda.

Da questo rompicapo tutto interno al Pd, Renzi esce appannato ed affannato. Dalla prossima settimana governerà la nazione ed è dovere di ogni italiano sperare che riesca in breve tempo ad invertire la tendenza. Per ora ha dimostrato che la gioventù è una gran bella cosa, ma in politica, da sola, non basta.

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