L’Occidente non “morirà per Kiev”. Putin scommette sulla logica del fatto compiuto
La crisi della Crimea impone all’Unione Europea di aggiornare le sue coordinate in materia di politica estera. Per la verità, pensare all’Ue come entità unitaria in riferimento all’escalation in atto sul Mar Nero è una generosa apertura di credito già disattesa dalle divergenze che separano Berlino da Parigi e Londra in merito al da farsi nei confronti della Russia.
È indubbio che l’ultimatum russo all’Ucraina di cedere la Crimea rischi di riportare le lancette della storia al tempo della Guerra Fredda, anche se da allora il contesto è irreversibilmente mutato: i rigidi blocchi ideologici contrapposti sono ormai sostituiti da sistemi territoriali assolutamente interdipendenti tra di loro. L’intreccio indissolubile di economie sempre più finanziarizzate e quindi globali ha soppiantato la bomba atomica nel ruolo di sorella siamese della pace. Al tempo del lungo gelo tra Usa ed Urss, la guerra totale restava sullo sfondo come una remota eventualità. Divampavano invece conflitti “regionali”, importanti certo ma non decisivi per assegnare la leadership mondiale. Ora che la deterrenza da nucleare si è fatta economico-finanziaria, il risultato non cambia: le frizioni tra Usa e Russia (ma il discorso riguarda anche la Cina e tutti i grandi sistemi territoriali e demografici) non possono oltrepassare il limite oltre il quale c’è solo la devastazione generale. La crisi in Crimea ne è un esempio: Usa, Francia e Gran Bretagna potranno decidere di boicottare il G8 di Sochi, pretendere l’espulsione di Mosca dal club dei Grandi, applicare sanzioni e minacciare embarghi ma tutto questo non servirà a rendere la Crimea agli ucraini. Putin lo sa e per questo ha puntato alla logica del fatto compiuto.
La fredda determinazione con cui Mosca sta attuando il suo disegno di conquista rappresenta un severo monito per il resto del mondo: per gli Usa, innanzitutto, resi esitanti ed oscillanti dalla presidenza Obama, già indebolita dalla clamorosa retromarcia sull’intervento umanitario in Siria, ma anche per un’Europa ancora tutta chiacchiere e moneta unica e perciò incapace di ragionare con una sola testa in politica estera. I carri russi in Crimea sono in poco dissimili da quelli sovietici a Praga e prima ancora a Budapest. La bandiera rossa ammainata dal Cremlino non ha distolto Mosca dal ruolo di capitale di un impero. Negli ultimi due decenni, quello russo ha subito rovesci militari, amputazioni territoriali, ha perso uno ad uno tutti i suoi antichi satelliti attratti dall’orbita europea (in realtà tedesca), ha dovuto fare i conti con i nazionalismi di ritorno ed il terrorismo ceceno, ma non ha mai rinunciato a realizzare l’obiettivo che da Pietro il Grande in poi costituisce la pietra angolare della politica estera russa: “raggiungere” in ogni campo l’Occidente senza lasciarsene condizionare. È una necessità vitale imposta dalla geopolitica più che da una volontà di potenza.
L’Orso russo lo ha dimostrato ai danni di una nazione sovrana ed indipendente che gli può impedire lo sbocco sul Mediterraneo. Tuttavia, è proprio la disinvolta baldanza con cui ha inghiottito la Crimea ad imporci di comprendere che la pretesa occidentale di fondare un ordine mondiale sulle categorie morali di bene e male o di giusto ed ingiusto non risulta condivisa. In realtà, la scelta di Putin segnala una vistosa asimmetria sui principi entro i quali e sui quali costruire la reciproca convivenza tra gli Stati. Un’asimmetria che l’Occidente credeva di aver liquidato con la fine nazismo ed il crollo del comunismo realizzato ma che vede ora reintrodotta dalla rivendicazione russa del suo spazio vitale minacciato dal filoeuropeismo di Kiev. Nella sua essenza più politica l’invasione della Crimea rivela l’ambizione della superpotenza russa di offrire alla sua antica e composita sfera d’influenza un sistema di interessi e di valori alternativo o comunque molto diverso da quello egemone nell’Ovest del mondo. È un’offerta finalizzata anche a ricreare relazioni di buon vicinato con il mondo islamico. L’intransigenza di Putin ad aprire sui alcuni dei cosiddetti diritti civili ne costituisce certamente un esempio.
Il revanchismo russo riguarda – per via del gas – anche l’Italia, che forse anche per questo ha realisticamente deciso di restare più vicina a Berlino che a Londra. È una scelta prudente che però non basta a farci percepire meno marginali. L’immagine della nostra politica basata sulle scaramucce da tweet o sul pollaio da talk show è altra cosa rispetto a quella delle navi da guerra russe in rada nella baia di Sebastopoli. È la metafora della distanza tra la nostre miserie domestiche e la drammatica grandezza dei problemi del mondo. Viene da riflettere sullo spirito della storia a considerare che il primo mattone della strategia che avrebbe unito l’Italia fu messo proprio in Crimea. Certo, c’era Cavour ed ora dobbiamo accontentarci di Renzi. Ma nulla può impedirci di sperare che quella strategica penisola immersa nel Mar Nero ci possa aiutare almeno a diventare politicamente adulti.