Tra schiaffi alla vecchia guardia, “Italicum” e Irpef, Renzi prepara il ritorno alle urne
Il patto Renzi-Berlusconi sull’Italicum barcolla ma non molla e alla fine piega la resistenza della Camera: 365 sì e 156 no. Numeri che parlano chiaro, ma che tuttavia non archiviano le polemiche innescate dalle maggioranze risicate seguite ai voti segreti dell’Aula. È perciò da decifrare se sia stato più coraggioso che incosciente, Matteo Renzi, ad affidare la propria amarezza al retroscenista di Repubblica, Claudio Tito, per sfogarsi circa un presunto complotto ai danni del governo ordito dalla vecchia guardia del Pd proprio sul provvedimento appena approvato. Di solito un politico di rango – e Renzi, almeno in omaggio al ruolo, va considerato tale – sorveglia e soppesa attentamente le parole, specie quando affronta un tornante impegnativo come la legge elettorale. È quindi lecito dedurne che lo sfogo sia in realtà un segnale ai naviganti del Pd per far intravedere un salto di qualità nella strategia di Palazzo Chigi.
Non si spiegherebbe altrimenti il guanto di sfida lanciato dal premier in pieno volto a Bersani proprio quando l’Italicum approda a Palazzo Madama, dove è chiamato a superare il non certo facile scoglio dell’abolizione del Senato, che è solo il più irto tra quelli non meno insidiosi trascinati dal tormentato esame della legge elettorale a Montecitorio: preferenze, soglia di sbarramento, premio di maggioranza, parità di genere ed altre questioni minori. Basta, del resto, ascoltare la dichiarazione di voto del capogruppo Pd alla Camera, il non renziano Speranza, per rendersi conto che il prossimo passaggio non sarà indolore né risolutivo. Perché allora Renzi solleva il tema spinosissimo del controllo dei gruppi democrat quando la difficoltà della situazione richiederebbe filo di cotone piuttosto che filo spinato? Forse solo perché il regolamento del Senato – che esclude in materia voti segreti – non autorizza agguati o imboscate? Ma se così fosse, sarebbe un ragionamento miope o – per dirla con Bersani – esibizionismo da movida. Probabile, invece, che sia calcolata ricerca di un incidente di frontiera per muovere guerra. Non esistono altri modi per decrittare l’insinuazione di Renzi all’indirizzo della vecchia guardia del partito, a suo dire, priva ormai di presa sui gruppi parlamentari. Che è come dire che non conta più nulla. Una provocazione bell’e buona che il premier non avrebbe mai lanciato se non sperasse di riceverne una reazione uguale e contraria.
È solo un indizio, certo. Ma è innegabile che lo spread tra i tempi annunciati e quelli realmente occorrenti per le riforme quasi impone a Renzi di accelerare verso elezioni anticipate. Solo così riesce a non affogare nel mare che separa il dire dal fare e a colmare il deficit di legittimazione popolare di cui sente il peso soprattutto all’estero, dove è chiamato a confrontarsi con leader che sono tali per scelta popolare e non per manovra di palazzo. Ma è un obiettivo che ha bisogno di effetti speciali. E qui scatta il secondo indizio, cioè la decisione di tagliare l’Irpef piuttosto che l’Irap. Una scelta che aggiungerà circa 80 euro agli stipendi medio-bassi ma, soprattutto, una scelta in grado di fidelizzare elettoralmente segmento sociale dei lavoratori dipendenti oggi conteso tra Pd e grillini. Non è casuale che proprio nel finto sfogo con Repubblica il premier l’abbia definita come “la manovra più di sinistra” degli ultimi anni. Ed è probabile che pensasse a questa – più che all’Italicum – quando ha sfidato i nemici annidati nel suo partito a spiegare “fuori” le vere ragioni della loro fronda.
Manca ancora il terzo indizio, solitamente decisivo, ma tutto lascia pensare che una volta incassato lo strumento delle liste bloccate con cui scegliere e fidelizzare i deputati (il Senato dovrebbe essere cancellato dalla riforma), Renzi darà fuoco alle polveri per sbarazzarsi di quel che ancora nel Pd gli resiste. Nel frattempo, si vedrà se lì dentro continuerà la movida del premier o se invece la vecchia guardia daleman-bersaniana romperà gli indugi per attaccare Renzi in campo aperto. Sempre che, beninteso, non finisca come quella di Bonaparte a Waterloo.