Il 25 aprile è oggi il rito stanco di un Paese diviso. E livido

25 Apr 2014 19:46 - di Aldo Di Lello

Anche per il 25 aprile, Renzi se la cava un con tweet. «Viva l’Italia libera. Grazie ai ribelli di allora». Nulla di originale, nulla di storico, nulla di ideale. La memoria italiana è compressa in una pillola. Meglio certo delle vecchie concioni, trasudanti retorica. Meglio anche della cattiva abitudine dell’uso politico della storia. Ma si rimane comunque  sconcertati dalla piattezza e dalla banalità della comunicazione renziana. Non è però tutta colpa di Renzi. È che il 25 aprile, volenti o nolenti (proprio in quanto festa politica per eccellenza), ha rappresentato sempre un sorta di termometro per misurare lo stato, per così dire, “psicologico” della comunità nazionale. E oggi dà misura di un Paese stanco, sfiduciato; un Paese che rimane profondamente diviso e che non è riuscito a trasformare la Repubblica in una “religione civile” . Le istituzioni sono percepite con sempre maggiore distacco. Una grande e crescente fetta della popolazione è percorsa da un cieco sentimento di livore. E, nei piani alti dello Stato, tutto sa di stanchezza. Ne è prova anche il discorso di Napolitano. Parole rituali: «I valori della Resistenza restano incancellabili. Fu un grande moto civile ed ideale, ma soprattutto fu un popolo in armi, una mobilitazione coraggiosa di cittadini giovani e giovanissimi che si ribellavano allo straniero». L’unico momento di pathos è il pensiero dedicato a Massimiliano Latorre e Salvatore Girone: «Onore ai Marò, ingiustamente trattenuti, lontano dalle loro famiglie». Ma per il resto nessun guizzo, nessuna incitamento alla politica  ad attuare un concorde programma riformatore. Il capo dello Stato sa bene, del resto, che il momento è delicato, anche e soprattutto per le tanto auspicate riforme.

La  politica è del resto esausta. La divisione attraversa lo stesso campo della sinistra. Persino il banale tweet di Renzi è riuscito a suscitare la reazione indignata di qualche professore. Come Marco Revelli : «I ribelli di allora sono gli stessi di oggi, che si ribellano a chi vuole manomettere la loro Costituzione in senso autoritario e oligarchico». E lo storico torinese non è certo il solo a pensarla così. Ma il premier non mostra preoccupazione. Dopo il tweet, s’è concentrato sulla sua solita preoccupazione: presentarsi popolare e “cool”.     Durante la cerimonia con il capo dello Stato, indossava al cravatta. Dopo se l’è tolta per dare il “cinque” alla folla. Cosa volete che interessi, a uno così, della “religione civile” della Repubblica?

In altri tempi, durante il 25 aprile, la politica riusciva sempre a “fare notizia” , a dire qualcosa che smuoveva  passioni, nel bene e nel male. Un 25 aprile, ad esempio, che in anni recenti ebbe un forte impatto politico fu quello del 2009, quando Berlusconi andò a Onna, tra i reduci della Brigata partigiana Maiella, a dire che la  ricorrenza doveva appartenere a tutti gli italiani. Uno dei 25 aprile più brutti e velenosi fu invece quello del 1994, che rappresentò l’esempio  più sfacciato di uso politico della storia. Il Polo della Libertà e del Buon Governo aveva vinto le storiche elezioni del 27 e 28 marzo. E tutta l’occhettiana ” macchina da guerra” non s’era ancora ripresa dallo shock. Si concentrò in quel giorno a Milano tutta l’opposizione più livorosa contro il nuovo governo. Protestavano contro l’ingresso dei ministri di An al governo. Erano settimane incandescenti. Qualche giorno prima, partecipando alla trasmissione televisiva Combat Film, Giano Accame pronunciò in tv parole fino ad allora inaudite. Disse che l’antifascismo non era, di per sé, sinonimo di democrazia, perché se c’erano gli antifascisti democratici, c’erano anche quelli totalitari (i comunisti). Successe il pandemonio. Poi, in anni successivi, dopo il discorso di Violante sulle “ragioni dei ragazzi di Salò” (che suscitò la commozione in Mirko Tremaglia), i 25 aprile cominciarono a prendere un’altra piega: si prese  a parlare di valori codivisi e di unità della nazione democratica. Altri tempi. Oggi è tutta un’altra storia. Assai più triste e assai più piatta. Le storiche passioni ideali si vanno, piano piano, spegnando. In un Paese immobile, angosciato e furioso. Che le riforme neanche se le aspetta più.

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