Il “Libretto rosso” di Mao naufraga in uno sciopero colossale: modello cinese addio
È quasi una settimana stanno scioperando decine di migliaia di lavoratori della fabbrica di scarpe della Yue Yuen di Dongguan, nel sud della Cina. Si tratta della protesta più importante mai organizzata in Cina, come affermano fonti degli stessi lavoratori, citate dall’organizzazione China Labor Watch, di base a New York. Circa 60mila persone lavorano nella fabbrica di Dongguan della Yue Yuen, un’impresa taiwanese che produce per marchi prestigiosi, tra gli altri per Adidas, Nike e Timberland. Il gruppo proprietario della fabbrica, chiamato Pou Chen, ha in Cina in tutto 200mila dipendenti, secondo il Clw. Gli operai chiedono welfare e aumento di salari e la direzione della fabbrica avrebbe accettato la richiesta che sia garantita a tutti i lavoratori un’assicurazione sociale, che è all’origine dello sciopero. Ma la direzione ha anche diffidato i lavoratori a proseguire l’agitazione, minacciando di «punirli secondo la politica aziendale». Il Clw afferma che nei giorni scorsi si sono verificati vari episodi di violenza tra scioperanti e agenti di polizia. «Un certo numero» di operai sarebbero stati arrestati, aggiunge l’organizzazione. Il condizionale è inquietante. Che succede? Il mitico modello economico del comunismo cinese scricchiola? “Cina” e “lavoro” non sono più quel binomio inscindibile, ai nostri occhi spesso declinato nei termini di sfruttamento, salari bassi e orari di lavoro sfiancanti, ma un tempo accettato graniticamente dai lavoratori. Non è più così. Lo sciopero alla Yue Yuen è l’ennesimo di una lunga serie che sta coinvolgendo la Cina dall’inizio dell’anno con i lavoratori che chiedono aumenti. E mentre la polizia presidia gli spazi antistanti la fabbrica Adidas e Nike iniziano a mostrare segni di insofferenza. Secondo quanto si apprende l’azienda si sarebbe impegnata a varare le misure di welfare entro il 2015, ma i lavoratori non si sono sentiti soddisfatti dell’offerta e stanno proseguendo la protesta. Che succede? Accade che «la frattura enorme fra ricchi e poveri rischia di provocare una rivoluzione cento volte più violenta di quella condotta da Mao». A dirlo non è uno qualsiasi, ma padre Bernardo Cervellera, direttore dell’agenzia Asia News, che in Cina passa gran parte del suo tempo per testimoniare una realtà che i media politicizzati ci hanno spesso dipinto con altri colori. Una realtà che ora mostra tutte le sue contraddizioni.