L’insostenibile disoccupazione non può essere “coperta” da velleitarie riforme istituzionali
Le convulsioni politiche degli ultimi mesi hanno messo in ombra un dramma che si stava dispiegando nell’indifferenza o distrazione della classe politica. Ieri è emerso con tutta la sua dirompente violenza a turbare i giochi dei riformatori della domenica, dilettanti che non tengono conto del contesto in cui si muovono come elefanti in una cristalleria. Il dato certificato della disoccupazione in Italia è terrificante: 13%; quella giovanile supera il 43%. Il premier Renzi, in gita promozionale a Londra, non ha trovato niente di meglio che definire “sconvolgente” ciò che tutti, ma proprio tutti, sapevamo da tempo, forse soltanto lui non se n’era accorto. Non ricordiamo infatti parole memorabili al riguardo, dal discorso di insediamento davanti al Parlamento in poi, pronunciate dal premier che invece si è riempito la bocca di riforme che non solo non sfamamo, ma che per il metodo con cui vengono proposte e portate avanti sono destinate ad innescare polemiche che finiranno, molto probabilmente, con un nulla di fatto.
Tanto per essere chiari, non si abrogano o modificano ottanta articoli della Costituzione a maggioranza (come accadde per il Titolo V), ma con un coinvolgimento non soltanto istituzionale di tutte le forze politiche, oltre che dei cittadini. Se è una “Costituente” che si vuole promuovere, allora i modi ed i tempi non possono che essere diversi. Ottanta articoli sono il “cuore” stesso della Costituzione che inevitabilmente, nella formulazione che se ne conosce, irromperanno nell’impianto istituzionale provocando contraddizioni infinite prescindendo da esso che andrebbe rivisto invece rivisto da cima a fondo e armonizzato secondo una filosofia che al momento non scorgiamo tra gli annunci ad effetto del premier ed i molti “distinguo” formulati da chi la riforma dovrebbe appoggiarla. Prevedere un Vietnam al Senato non è assolutamente azzardato.
In questo contesto, già di per sé politicamente precario, non vediamo davvero come possa Renzi promettere che “nei prossimi mesi, nei prossimi anni” (insomma: mesi o anni?) si dovrà portare la soglia della disoccupazione sotto il dieci per cento, che rimarrebbe pur tuttavia insopportabile per le famiglie ed in particolare per i giovani. Oggi è questa la preoccupazione principale, non che le riforme costituzionali debbano passare perciò in secondo piano. Vi sono tuttavia priorità che vanno affrontate. E se il presidente del Consiglio dice che negli ultimi tre anni, cioè dal 2011, la situazione è peggiorata, qualche responsabilità bisognerà pure indicarla con chiarezza. Tanto per uscire dal vago, coloro i quali, dotti professori che promettevano di farci vedere la luce in fondo al tunnel, non sembra che abbiano operato in modo da far crescere l’occupazione. E neppure le larghe intese hanno portato i risultati sperati. Renzi, poi, sembra aver rimosso il problema in nome del rinnovamento, dell’Europa che ci chiede sempre qualcosa o perché impegnato nel promuovere il suo governo presso le cancellerie continentali e sull’altra sponda dell’Atlantico.
Ecco, tra un patto e l’altro al Nazareno, una baruffa nella maggioranza ed una crisi di nervi nell’opposizione, i disoccupati sono diventati fantasmi, nel senso che nessuno più sembra essersene curato. I giovani, dicono le statistiche, pare abbiano addirittura perso le speranze: molti non cercano neppure più un lavoro. Chi sta nel guado per averlo perso di recente è in preda alla disperazione. Gli esercizi commerciali chiudono uno dopo l’altro, le piccole imprese che resistono ricorrono agli ammortizzatori sociali che stanno esaurendo le scorte, lo Stato stesso non assume più e si rifugia, come fa intendere una giovane ministro, nell’ipotesi che bisogna far posto ai giovani rottamando i vecchi, con tanti saluti all’esperienza, alla competenza, alle responsabilità maturate.
Un Paese che affonda non si tira su con improvvisate riforme. Qualcuno lo dica a Renzi e gli suggerisca pure di trovare il modo, lui così fantasioso, per dare qualche speranza a chi l’ha persa. Non è questione di mesi o di anni, ma di giorni.