Lunedì il decennale dell’esecuzione di Fabrizio Quattrocchi. La sorella: «Era un italiano vero»
Il 14 aprile del 2004 quando Fabrizio Quattrocchi veniva ucciso in Iraq dai suoi sequestratori. Sono passati dieci anni e lunedì prossimo sarà un “giorno speciale” per chi lo conosceva e per chi ha imparato ad amarne il coraggio e la fierezza dimostrata durante quella tragica avventura. Per il decennale della sua morte la famiglia ha organizzato una cerimonia per ricordarlo, al cimitero di Staglieno ci saranno anche Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio, che non si ritrovavano insieme da quei terribili giorni in Iraq. «Vorrei solo che lo ricordassero per quello che era. Un italiano vero, orgoglioso di esserlo». Graziella Quattrocchi rivive in un’intervista a Repubblica quei drammatici momenti. Quattrocchi fu preso in ostaggio, a Baghdad dove lavorava per una compagnia, il 13 aprile insieme ai colleghi Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio, da miliziani del gruppo autoproclamatosi “Falangi Verdi di Maometto”. Fu giustiziato il 14 aprile. Gli altri colleghi furono liberati l’8 giugno, dopo 58 giorni di prigionia. Nell’attimo prima di morire non implorò la clemenza dei suoi carnefici, ma espresse la fierezza e l’orgoglio di essere italiano: «Adesso vi faccio vedere come muore un italiano». C’è tanta amarezza nel ricordo. La sorella racconta di aver saputo della morte del fratello «dalla televisione. Dicono che la Farnesina ci avesse già avvertito, non è vero. Sono stati i giornalisti. Molto spettacolare. Senza pietà. Crudele». Graziella Quattrocchi non ha dimenticato gli ultimi giorni prima del tragico epilogo: «Il 12 aprile era Pasqua, Fabrizio ha chiamato quattro volte. Tranquillo come sempre. Ma ripeteva di avere una gran voglia di tornare a casa. Ancora una settimana o due al massimo, ha detto. Passa un giorno, telefona mio fratello Davide: in tivù dicono che hanno sequestrato quattro italiani in Iraq, c’è anche Fabrizio. Impossibile, ho risposto. Ho pensato che ce l’avrebbe detto, che era laggiù. Il 3 gennaio era partito da Genova, non ha detto la meta. Pensavo fosse in Kosovo. In un Paese in guerra no, mai. Forse neppure lui sapeva dove l’avrebbero mandato. Forse era per quello, che sperava di rientrare presto. Ma non voleva spaventarci». Il giornalista le chiede quante volte ha visto quel terribile filmato: in ginocchio, pietre e polvere, le mani legate e una kefiah a coprirgli il volto: «Posso levarla? Vi faccio vedere come muore un italiano. Posso?». Poi i due spari… «Una – risponde Graziella Quattrocchi – Era lui, era Fabrizio. Un mese dopo avrebbe compiuto 36 anni. Sapeva che lo avrebbero ucciso, che l’Italia non avrebbe mai ritirato i soldati. Che era finita. Però voleva guardare in faccia i suoi carnefici. Un ragazzo leale che amava il suo Paese, fiero della sua italianità. Tutto qui, se vi basta». E poi ancora:«Lo hanno ucciso due volte. Le speculazioni. La politica. Noi non abbiamo chiesto nulla. Non siamo mai andati in televisione, tranne quando hanno trasmesso il video dell’esecuzione. Mai un’intervista, se non parole rubate con una telefonata e poi travisate. C’è gente che dopo una tragedia si mette in mostra, si lega a questo o a quel partito, s’assicura almeno uno stipendio. Noi no. Vogliamo essere lasciati in pace, niente strumentalizzazioni. La dignità. Quella di Fabrizio». Parole durissime le sue: «Penso che dieci anni fa fossimo tutti impreparati, non si poteva fare di più. La sua è stata una morte inutile, non è cambiato nulla. Ho pianto per la scomparsa di Baldoni. L’altro giorno hanno rapito due missionari italiani e ho provato come un senso di stanchezza infinita». Un dolore che non si è mai affievolito. «Avevamo un panificio – racconta ancora – poi mio padre è morto e Fabrizio in negozio soffriva d’allergia, così abbiamo venduto. Era campione di taekwondo, forte ed equilibrato. Ha scelto di occuparsi di sicurezza, gli è venuto facile: infondeva tranquillità. Serio, semplice. Per noi, così uniti, un capofamiglia. I primi tre anni è stato come se fossimo morti con lui. Lo strazio del ritrovamento dei resti, il dolore quotidiano. Se siamo andati avanti è per le cose che ci ha lasciato. I ricordi che posano sulla sua tomba, la medaglia d’oro al valor civile. Per le lettere che ci sono arrivate in questi anni: il re di Giordania, il sindaco di New York, tanti italo-americani che hanno scritto di essersi finalmente sentiti fieri del loro Paese». Orgogliosi di essere italiani. Non è facile di questi tempi, osserva il giornalista. E lei con orgoglio: «Fabrizio lo era, e credo che a modo suo abbia scritto un pezzo di storia d’Italia. Vorrei solo che tutti capissero la persona che era. La sua dignità, la coerenza. Vorrei che avesse un posto giusto nel ricordo di tutti. Quello di un vero italiano».