Euroscettici in aumento dappertutto. E c’è chi invoca l’emergenza per tornare alle “larghe intese”

20 Mag 2014 12:07 - di Silvano Moffa

Che cosa accadrà dopo le elezioni europee? E se Grillo dovesse vincere , sbancando in quella parte di elettorato che si recherà alle urne, un governo meticcio, metà di sinistra e metà di fuoriusciti dalla destra, riuscirà ancora a reggere? Che ne sarà di Renzi e della sua baldanzosa chiamata alle armi di una sinistra che rischia, in un simile scenario, di andare in totale confusione e finire in brandelli?  Riuscirà Berlusconi, con una Forza Italia eventualmente ridimensionata e un centrodestra frantumato,  a mantener fede all’impegno di sostenere un progetto riformista che presenta molti limiti  e che già ora appare alquanto sbiadito? Certo, valutare il dopo europee sulla base delle punzecchiature e delle scaramucce verbali che salgono di tono a mano a mano che si avvicina la data del voto, è  impresa ardua oltre che inutile.

L’impressione è che la disputa in atto nasconda molto  più di quanto si immagini. Si giocano più partite in una sola competizione. E anche i campi sono diversi. Il ché  fa crescere il livello delle incertezze, rende il futuro alquanto nebuloso e semina non poco scoramento in un elettorato già di per sé abbastanza spaesato. Intanto, c’è il tema dell’Europa che tiene banco solo e soltanto sul versante dell’Euro Sì e dell’Euro No. Con gli euroscettici che crescono di numero un po’ dappertutto. Fenomeno prevedibile, scontato. Secondo uno studio dell’Istituto Cattaneo di Bologna il tema, nella sua radicalità, potrebbe questa volta far breccia soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia,perché è in questa area del Paese che più si avvertono i morsi della crisi economica, è qui che la disoccupazione ha raggiunto cifre iperboliche e il sistema produttivo è letteralmente saltato in aria. D’altro canto, il nostro Mezzogiorno riflette  le pulsioni antieuropeiste che ormai aleggiano nelle zone più colpite dalla crisi nei 28 paesi dell’Unione. Questa è l’unica vera novità. Temi che sembravano appannaggio di forze a carattere territoriale e localistico come la Lega oppure ad alto tenore populistico cominciano a penetrare anche nei partiti tradizionali, scompaginando schemi e saldi punti di riferimento.

Non è un caso che  dal dibattito politico siano scomparsi alcuni argomenti che pure hanno forte attinenza con l’Europa, ma che richiamano responsabilità che non sono attribuibili  alla tecnocrazia di Bruxelles bensì alla inadeguatezza, per non dire altro, di chi governa l’Italia, nei vari livelli istituzionali, dallo Stato alle Regioni ai Comuni. Si pensi ai 90 miliardi di fondi strutturali che , per la maggior parte, fatichiamo a spendere. Metà delle risorse assegnate all’Italia  per la programmazione  2007-2013 sono ancora lì che attendono di essere impiegate. Mentre non ci si attrezza ancora per destinare, nella nuova programmazione, un quota più alta di investimenti nel campo della ricerca, delle tecnologie e della efficienza energetica, in particolare nel Sud, come chiede la Commissione europea. Sarà per questo insieme di ragioni confessabili e di ragioni meno confessabili in questa fase preelettorale  – e per altro ancora, che si muove nella pancia di un sistema politico mai prima d’ora così fragile e indebolito – che riaffiora l’ipotesi di una rediviva alleanza, non solo sulle riforme, ma addirittura di governo, tra Pd e Forza Italia. L’ipotesi di una riedizione, riveduta e corretta, delle “larghe intese”. Si dice per arginare il populismo grillino e affrontare l’emergenza. Con quale credibilità, in assenza di un chiaro mandato degli elettori, è difficile capire.

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