Il centrodestra punti sul Sud prima che sia troppo tardi. Anche la Lega lo ha capito
Al di là di ogni pronostico sul vincitore di domenica prossima, è certo che le elezioni s’incaricheranno soprattutto di ribadire l’assetto tripolare del nostro sistema politico, già delineato dalle consultazioni dello scorso anno. Stando ai sondaggi, l’ordine dovrebbe essere il seguente: Pd, M5S, Forza Italia. Un anno fa, tuttavia, per effetto del sistema maggioritario, l’attenzione si concentrò soprattutto sul risultato complessivo delle coalizioni; domenica, invece, il sistema di voto proporzionale imporrà di puntare i fari sulle performance di ogni singolo partito. Fanno eccezione i grillini, in corsa solitaria ieri ed oggi.
Le elezioni europee costituiscono però un unicum nel nostro sistema elettorale. In tutti gli altri livelli elettivi vige infatti il principio delle alleanze preventive e quindi delle coalizioni con annessi premi di maggioranza. Non sarebbe perciò sbagliato se anche domenica sera valutassimo globalmente il peso elettorale dei potenziali schieramenti. Solo così potremmo renderci davvero conto se l’annunciata marcia trionfale di Grillo è realmente destinata in futuro a sbaragliare i concorrenti e, con essi, le residue speranze di approvare l’Italicum con cui rieleggere la Camera dei Deputati. Ma è anche l’unico modo per valutare se esistono ancora margini per un centrodestra diverso dall’attuale, oggi in affanno non solo per il declino della leadership berlusconiana ma soprattutto per l’incapacità di tirare fuori nuove parole d’ordine.
Finora questo schieramento ha fondato la propria constituency politico-programmatica sul cosiddetto “asse del Nord”, l’alleanza privilegiata con Bossi e con la Lega. In nome di questo “asse” ed in omaggio a questa alleanza, il centrodestra ha alimentato per anni la speranza di un fisco più equo e di uno Stato meno invasivo. Due obiettivi giustissimi da centrare attraverso il federalismo fiscale, un meccanismo che nella sua essenza più profonda sta ad indicare il reimpiego sotto forma di erogazione di servizi in un territorio delle risorse raccolte sotto forma di tasse su quello stesso territorio. È un meccanismo che sprigiona competizione, non solidarietà, introdotto per altro dalla riforma del Titolo V della Costituzione approvato dalla sinistra nel 2001. Bastava questo per diffidarne, invece è accaduto il contrario. A beneficiarne è stata solo la Lega, data in crescita nei sondaggi nonostante le tormentate vicissitudini degli ultimi due anni, perché aveva agitato come idea-forza il presunto gap tra peso fiscale sostenuto e peso politico esercitato dal Nord. Il resto della coalizione non le ha saputo opporre un argine in termini di visione nazionale.
Il risultato è che oggi la situazione è completamente ribaltata ed il potenziale rivoluzionario lo offre il Sud con il suo più 130 per cento di imposizione locale, recentemente certificato dalla Corte dei Conti. Un salasso che si aggiunge a quello causato dalla manovra del governo Letta per la copertura del deficit e che si è concentrata sulla casa e sulle imposte indirette (Iva ed accise), cioè su due voci indipendenti dal reddito e si sa che il reddito medio di un napoletano è poco più della metà del reddito medio di un milanese. Senza infine trascurare altre voci come Rc auto, Rc moto, addizionali, molto più salate al Sud. In compenso, la classe dirigente meridionale neanche la invitano ai tavoli dove si decide e basta guardare la residenza della maggior parte dei ministri, del presidente dell’Anci o di quello della Conferenza Stato-Regioni per rendersene conto. Morale: è al Sud che si sta giocando la partita decisiva. Secondo l’Istituto Cattaneo, l’unico a capirlo è stato Grillo. E Renzi, aggiungiamo noi, l’unico ad imitarlo. Il centrodestra, per ora, è semplicemente non pervenuto. Ma non è mai troppo tardi. Fino a domenica, almeno.