In un libro il j’accuse di Tassinari contro Giorgio Napolitano, regista non occulto della decadenza italiana

14 Mag 2014 12:20 - di Redattore 54

Si chiama Il capo della banda il ritratto non proprio benevolo che il giornalista e scrittore Ugo Maria Tassinari dedica a Giorgio Napolitano (un libro di 116 pagine, stampato dalle edizioni Sì di Cesena), ma avrebbe dovuto chiamarsi Il Peggiore. E per banda non si intende un gruppo di criminali, ma la “cricca” delle larghe intese. Per molti necessarie a una stabilità utile a farci risollevare dalla crisi, per Tassinari funzionali a farci piegare la testa dinanzi all’ordine globale che calpesta gli ultimi, distrugge lo stato sociale, trasforma la sinistra in riformismo liquido e la destra in complice e soprattutto impedisce ai cittadini di votare (anche se, quando poi il popolo sovrano vota, o se ne sta a casa o non riesce col voto a sbloccare una situazione di inerzia). Napolitano, il grande tutor di governi non eletti – Monti, Letta e infine Renzi – si presta benissimo a incarnare questa mission di paludosa conservazione agli occhi dell’autore.

Tassinari trovò l’ex capo dei miglioristi del Pci antipatico e algido fin dal primo incontro in una sezione rossa di Napoli degli anni Settanta. Un’antipatia che nel tempo si è rafforzata e solidificata. Oggi Napolitano, con i suoi 88 anni, è l’immagine “mummificata” di un Potere che Tassinari si ostina a voler combattere con la cocciutaggine rivoluzionaria – o presunta tale – che caratterizzò la sua militanza giovanile nelle file dell’estrema sinistra. In pratica l’autore non apprezzava il Napolitano finto-comunista (o meglio comunista senza Marx), non ha apprezzato il Napolitano politico e non apprezza oggi il Napolitano presidente. Un presidente così poco proletario che su di lui circolava il pettegolezzo, del tutto infondato, che fosse figlio naturale di Umberto di Savoia e la cui storia familiare è “tutta riconducibile all’esperienza massonica europea”.

Per Tassinari, Napolitano si spinge sempre al limite delle competenze assegnategli dalla Costituzione, è da sempre un fautore del dialogo e dei toni grigi, intermedi tra bianco e nero, e in più si è mostrato più amico di Berlusconi che di Prodi. Quanto alla rielezione, Napolitano avrebbe dovuto tenersi equidistante dai partiti ma così non è stato. Dunque, ipotizza l’autore, forse le larghe intese erano già una soluzione a portata di mano e serviva una bella narrazione retorica sul “sacrificio della riconferma” per dare sostegno a una soluzione che contraddiceva i desiderata dell’elettorato italiano. Infine, c’è il ruolo del Quirinale nella vicenda delle intercettazioni a latere delle indagini sulla trattativa Stato-mafia eseguite dalla Procura di Palermo. Napolitano Re, Napolitano dominus, Napolitano grande sorvegliante di un Paese immobile che deve far finta di cambiare. Napolitano che con le sue scelte da grande burattinaio ha “portato il paese in una palude senza fine, con l’aumento costante del debito e una crisi industriale senza vie d’uscita stante l’impossibilità, dovuta ai vincoli europei, di rilanciare la domanda interna”.

Il libro di Tassinari si inserisce, da ultimo, in un filone collaudatissimo: quello di attribuire a un qualche “grande vecchio” della politica italiana tutti i mali del Paese. Morto Andreotti, c’è Napolitano, un curriculum perfetto per quest’operazione. Ma oltre il vizio formale di tipo ideologico c’è una sostanza di argomenti che giustifica la tesi finale sostenuta. E c’è la stessa crisi di credibilità dell’uomo del Colle, un tempo applaudito e oggi contestato fino alla richiesta di impeachment da parte del più significativo partito di opposizione, il M5S. Il filo conduttore parte da quell’incontro in sezione di 40 anni fa. Del resto è lo stesso Tassinari ad ammettere che, dopo avere sentito Napolitano parlare, all’epoca dei sogni barricaderi di gioventù, ci fu la bruciante consapevolezza dello scarto tra sogno e realtà che nei militanti, soprattutto se molto giovani, scava sempre dentro e a fondo. Questo personalissimo difetto di prospettiva non gli impedisce, tuttavia, di fornire al lettore un diario puntuale e interessante, a metà tra biografia e pamphlet, delle gesta del “comunista preferito di Kissinger”.

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