Libia, carri armati davanti al Parlamento. L’esercito ribelle attacca anche Bengasi
Blindati e sparatorie a Tripoli, fin dentro la sede del Parlamento: un edificio limitrofo dato alle fiamme, numerose autovetture danneggiate, i deputati e i dipendenti costretti a uscire in tutta fretta cercando di evitare carri armati e pick-up pieni di uomini armati ma in abiti civili. Domenica la situazione in Libia è degenerata nella capitale, spostando attenzione e combattimenti dalla Cirenaica – dove tra venerdì e sabato Bengasi è finita sotto i bombardamenti aerei delle truppe del generale in pensione Khalifa Haftar che ha scatenato un’offensiva “contro i terroristi” (80 morti e 140 feriti) – alle sedi istituzionali che da neanche quindici giorni hanno un nuovo premier. Ahmed Miitig era stato nominato per porre fine al caos e all’anarchia ma da molti (anche tra la popolazione civile) è considerato troppo vicino ai fondamentalisti islamici. E comunque finora è stato incapace di limitare scorrerie e violenze di una miriade di gruppi fuori controllo ma tutti pesantemente armati. Non è stato finora possibile capire se il violento attacco al Congresso nazionale generale (Cng) sia collegato all’offensiva capeggiata da Haftar nell’est della Libia. Ma il presidente dell’organismo, Nouri Abou Sahmein, lo stesso che sabato aveva gridato al tentato colpo di stato per i bombardamenti aerei su Bengasi, ha attribuito la gestione dell’operazione proprio ad Haftar. Altre fonti, spiegando che gli assalitori sono arrivati a bordo dei blindati dalla strada che collega la capitale all’aeroporto e che se ne sono andati percorrendo la stessa arteria verso sud, si sono dette quasi sicure che si tratti dei potenti miliziani di Zintan. Quelli delle brigate che tengono prigioniero il figlio del defunto Muammar Gheddafi, Saif al-Islam, e che si sono sempre rifiutate di consegnarlo a Tripoli. Quelli noti fin dall’inizio della rivolta nel 2011 per la loro decisa opposizione al fondamentalismo islamico. Già in febbraio avevano inviato un ultimatum al Cng, la più alta autorità del Paese, perché rinunciasse al potere: erano stati definiti golpisti e non avevano ottenuto nulla di ufficiale, ma non avevano dato seguito alla minaccia di attaccare in massa Tripoli. Poco dopo il governo di transizione aveva annunciato un “compromesso”, mai spiegato nei dettagli. Le brigate di Zintan hanno mantenuto intatto il loro potere e si sono tenute Saif al-Islam Gheddafi: tant’é che al processo che lo vede imputato a Tripoli insieme ad altri ex fedelissimi del padre (come l’allora capo dei servizi segreti Abdullah al-Senussi) durante le udienze compare in video proprio dalla località del sud libico. Secondo alcuni osservatori, il possibile collegamento tra le milizie di Zintan e il generale “pensionato” Khalifa Haftar potrebbe essere proprio la lotta all’integralismo islamico che a Bengasi ha la sua punta di diamante nell’organizzazione jihadista Ansar al-Sharia, inserita dagli Usa nella lista delle organizzazioni terroristiche con più che probabili collegamenti con la rete di al Qaida. Proprio la determinazione anti-qaedista potrebbe essere all’origine del sostegno ottenuto da Haftar da frange dell’esercito che nell’est gli hanno messo a disposizione aerei, elicotteri e armi pesanti. Oltre a un imprecisato numero di alti ufficiali e soldati che si sono autodefiniti “Esercito nazionale libico”, associandosi al suo proclama: «Non molleremo finché non avremo raggiunto i nostri obiettivi». Cioè difendere «il popolo, dai terroristi… Non voglio il potere. Ho solo risposto agli appelli della popolazione» stremata da più di tre anni di guerra. E a pezzi anche economicamente, visto il blocco dei terminal petroliferi e delle esportazioni di quella che era la maggiore ricchezza del Paese. Al termine di questa giornata di tensione e violenti scontri nel Paese nordafricano, dall’Italia si è levata la voce preoccupata del ministro degli Esteri Federica Mogherini: «Prima che la situazione sfugga a ogni controllo e la Libia imbocchi la strada della conflittualità in modo irreversibile – ha detto – la comunità internazionale, dall’Unione europea all’Onu, deve mobilitare tutti gli strumenti della diplomazia affinché la transizione verso la democrazia si compia con successo, con il coinvolgimento di tutte le parti».