Il legame indissolubile con Trieste, dove «si è più italiani che altrove»

27 Giu 2014 8:08 - di Roberto Menia

In un’aula vergognosamente semivuota, il 17 dicembre 1976, la Camera dei Deputati discute la ratifica del Trattato di Osimo, una delle pagine più nere della recente storia repubblicana: l’Italia cede alla Jugoslavia la parte nordoccidentale dell’Istria ed ipotizza la creazione di una zona industriale mista  italoyugoslava sul Carso triestino, che poi non si realizzerà per la rivolta civile dell’intera città. Giorgio Almirante pronuncia una grande discorso, che è assieme un grido di denuncia e rivendicazione nazionale, ma anche un inno d’amore verso Trieste.

Trieste per la destra non è solo il “cavallo di battaglia” che anima passioni e ricordi, ma l’essenza viva, simbolica e presente della militanza politica: non una cosa da evocare e guardare da lontano ma la battaglia vissuta e  da vivere. C’è un passo, in quel discorso, che contiene storie e risvolti personali, e colpisce proprio per questo: «Poiché qualcuno in quest’aula – dice Almirante – si è permesso addirittura di contestare il nostro o il mio personale diritto a parlare di questo problemi, perché è stato detto da taluno –  che parla e si sbraccia troppo, e non sa come si sono svolte le cose in questo Parlamento e in questa Italia da trent’anni a questa parte – che anche a Trieste noi mandiamo i ragazzi allo sbaraglio, ebbene, io mi permetto sommessamente di ricordare a me stesso che, nelle tragiche giornate del novembre 1953, quando 6 nostri ragazzi furono assassinati dagli inglesi (in piazza non c’erano soltanto i ragazzi, ma c’erano anche gli anziani) io, che non ero allora segretario del partito, ero a Trieste; e mi permetto di raccontare, ai pochi colleghi presenti, che per entrare a Trieste dovevo servirmi allora di documenti falsi, perché facevo parte di una lista nera del comando anglo-americano di Trieste e scendevo a Monfalcone per ricevere il famoso passaporto rosa (per fortuna, la mia faccia allora non era nota come tristemente lo è diventata in seguito, e quindi mi potevo permettere di usare espedienti di questo genere). Andavo a Trieste clandestinamente, quanto al passaggio della frontiera; ma mi trovavo a Trieste in mezzo alla gente, con i nostri ragazzi….

Ecco Giorgio Almirante, l’uomo della prima linea, grande agitatore di anime e passioni che prima di tutto e intensamente viveva egli stesso. Il suo rapporto con Trieste era quasi carnale. Gli abbracci, quasi le carezze a quelli che, generazione dopo generazione, per lui erano sempre “i ragazzi di Trieste”, da Francesco Paglia, capo del Fuan caduto sotto il piombo inglese nel novembre 53 e che lui ricordava come “bersagliere volontario del btg. Mussolini”,  ultimo caduto della Rsi e primo del Msi ad Almerigo Grilz, capo del Fronte della Gioventù morto da giornalista in prima linea in Mozambico nel maggio 1987, in onore del quale  lascerà – come è strano il destino – il suo ultimo scritto, esattamente un anno dopo.

Per chi la ricorda, la foto “classica” di Giorgio Almirante nel suo studio al Partito a Roma, aveva alle spalle un labaro diviso in quattro con gli stemmi di Trieste, bordato col Tricolore e  dell’Istria, Fiume e  Dalmazia perdute listati a lutto. È un’immagine che parla da sola.

Tanti nel capoluogo giuliano portano ancora nel cassetto della memoria quella Piazza dell’Unità d’Italia piena di gente, che lui salutava con l’immancabile “Italiani di Trieste”, con affetto e commozione, con amore e con rabbia, come quando gli vietarono i comizi con provvedimenti polizieschi o gli impedirono di parlare agli esuli dell’Istria nel grande raduno del quarantennale dell’abbandono di Pola.

Per tanti altri è pure rimasto indelebile il ricordo di quelle memorabili sedute del Comune di Trieste, del quale volle essere consigliere per vivere in prima persona la rivolta della città contro il trattato di Osimo, contendendone la guida con l’arrembante “Melone” (la “Lista per Trieste”,prima grande esperienza civica italiana) che eleggerà sindaco Manlio Cecovini, scontrandosi duramente con i comunisti, i filoslavi, i democristiani “osimanti”, persino Pannella venuto pure lui in quella specie di polveriera al confine tra due mondi.

Ma c’era anche un altro Almirante, quello silenzioso e profondo, che chiedeva di andare in pellegrinaggio al mattino presto, alla Foiba di Basovizza (dove il monumento nazionale non esisteva ancora) per portare i fiori e dire una preghiera sopra quell’immenso «Calvario con il vertice sprofondato nelle viscere della terra» come ripeteva citando le parole del grande vescovo istriano di Trieste, Antonio Santin.

Lì, nel silenzio, per chi lo sa ascoltare, sentiva come noi perché a Trieste si è più italiani che altrove.

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