Il Pd sospeso tra leadership renziana e culto delle radici

11 Giu 2014 13:33 - di Mario Landolfi

Il processo è appena all’inizio ma è già possibile scorgervi i prodromi di una metamorfosi assolutamente impensabile fino a pochi mesi fa. Di più, siamo in presenza di un tralignamento, di una vera e propria mutazione antropologica prodotta dall’introduzione del virus della leadership incondizionata nel più tradizionale dei partiti, il Pd. La via della “berlusconizzazione” degli eredi del Pci-Pds-Ds appare segnata: addio alle vecchie assemblee rese irrespirabili dal fumo “riflessivo” sprigionato da pipe e toscani, addio alle analisi seriose con annesso “dibbattito” dei compagni della direzione e addio anche al frazionismo, ormai di casa nella sinistra italiana. A trent’anni esatti dalla morte di Enrico Berlinguer, le radici di quello che fu il più forte, il più organizzato ed il più intelligente partito comunista del mondo occidentale, sembrano sopravvivere nella foto che ritrae un sorridente ministro Maria Elena Boschi, simbolo estetico del renzismo, mentre esibisce una maglietta con l’effigie di Palmiro Togliatti che gusta un gelato.

È il segno dei tempi. Renzi ha fretta di chiudere con un passato recente fatto di divisioni, ripicche e dispetti: il dualismo D’Alema-Veltroni e l’eterna disputa tra “ulivisti” prodiani e custodi delle identità dei partiti. Il tutto, mentre un centrodestra trainato semplicemente dalla leadership di Berlusconi appariva irresistibile. Oggi lo scenario si è addirittura capovolto: il centrodestra sembra un’armata Brancaleone e il Pd somiglia ad un reggimento prussiano. Basta guardare un tg o un talk show o scorrere i giornali per rendersi conto che in questo partito è in corso un processo di costruzione della leadership che non ha molti precedenti nella sinistra italiana. Aiuta certamente Renzi la sua estraneità al ceppo della tradizione ex-post e neocomunista, che lo mette al riparo dal sospetto di un nuovo centralismo democratico, comunque altra cosa rispetto al culto della leadership.

C’è, però, un “ma”. Le leadership, pur fondamentali e decisive, se innaffiate col conformismo e con l’obbedienza “cieca, pronta ed assoluta” diventano altro. Se Renzi è oggi il capo del Pd è solo perché ha avuto la possibilità di lanciare e vincere una sfida contro chi il partito lo ha guidato prima di lui. Ora deve consentire che un altro possa farlo domani contro di lui. In caso contrario, a prevalere nel Pd saranno conformisti e cortigiani. Chiedere, per conferma, ai dirimpettai del centrodestra.

 

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