Protestano i lavoratori della Coca Cola. I grandi marchi soffrono la crisi, ma non è la fine del capitalismo…
I lavoratori della Coca Cola sono in presidio, davanti ad Assolombarda, per protestare contro i tagli in Italia previsti dalla multinazionale. Oltre 300 persone sono a rischio dopo l’apertura da parte dell’azienda di una procedura di licenziamento collettivo per 249 dipendenti addetti alle vendite, per buona parte in Lombardia, cui si sommano 57 esuberi per la chiusura della struttura di Campogalliano (Modena). È un segno della crisi occupazionale, certo, ma più in generale del declino dei grandi colossi che hanno caratterizzato l’economia capitalista. È di una settimana fa la notizia del crollo di vendite che impensierisce Mc Donald’s, con un utile in discesa dell’1 per cento nel 2014 e conseguente contrazione dei posti di lavoro. In calo anche il fatturato di Ikea nel nostro paese (il marchio svedese di arredamento conta sull’espansione nei mercati dei paesi emergenti) e non sono mancate anche in questo caso le proteste dei lavoratori. Ma sarebbe errato trarne la semplicistica conclusione che la crisi sta abbattendo l’economia capitalista, che continua ad avere accusatori di prim’ordine come il francese Thomas Piketty autore del voluminoso saggio “Il Capitale nel XXI secolo”.
Una tesi, la sua, che sta riscuotendo grande successo: il capitalismo non eliminerebbe le disuguaglianze ma ne farebbe il suo punto di forza, rendendo i ricchi più ricchi e i poveri più poveri. Le proteste dei lavoratori di Coca Cola e Ikea ci forniscono un dato interessante: neanche chi lavora all’ombra dei grandi marchi si salva dai tagli e dalla disoccupazione, che nel sistema capitalista non è mai stata considerata un problema se non nella misura in cui sottrae consumatori al mercato.
Ma finché esisterà la legge della domanda e dell’offerta (che pare inestinguibile nelle società organizzate e non primitive) il sistema troverà il modo di sopravvivere. Basta sostituire alla Coca Cola un’altra bevanda oppure vendere mobili scadenti in Brasile e in India anziché nella vecchia Europa. È vero che per alcuni il declino della Coca Cola è il riflesso del declino dell’impero americano. Ma dietro ci sono anche altre tendenze, sottolineate da Francesco Semprini su La Stampa: “Mentre i baby-boomer, ovvero i nati durante il boom economico, continuano a preferire le bollicine, i giovani puntano a caffè, té, acqua, succhi, frullati ed energy drink. E’ il risultato della campagna salutista che vede i suoi alfieri in personaggi come Michelle Obama, particolarmente attiva nelle scuole oltre che nell’orto della Casa Bianca, e il sindaco di New York, Michael Bloomberg”.
Trasformare i consumi per far sopravvivere il mercato. Del resto, come sottolineato dal filosofo Costanzo Preve, il capitalismo non ha bisogno tanto di sfruttare i lavoratori quanto di avere sempre nuove schiere di consumatori. Il vero processo da combattere è quello della riduzione di ogni valore a merce, anche del valore della persona. Per questo organizzare i picchetti appare come una battaglia di retroguardia: è la grande risorsa dello spirito la riserva utile per impedire la reificazione dell’esistenza.