La Banca centrale di Pechino fa acquisti in Piazza Affari. E ora cediamo ai cinesi settori strategici
La Cina è sempre più vicina. Anzi, è ormai dentro di noi. Il Paese sta assumendo un ruolo sempre più decisivo nei mercati finanziari globali. Non più soltanto come fonte di flussi di capitale da piazzare nei mercati internazionali nel breve e nel lungo periodo, ma anche all’interno di una sapiente strategia di conquista di posizioni apparentemente poco influenti in società quotate in Borsa, laddove residui qualche forma di ritrosia o di pregiudizio nell’accettarne la presenza. È il caso dell’Italia. Da noi, il cinese, per una serie di ragioni , è stato sempre guardato con sospetto. Un umore che ha attraversato verticalmente ed orizzontalmente l’intera società italiana. Dal livello politico a quello del cittadino comune, per intenderci. Quest’umore permane, non appare affievolito. In un recente sondaggio, è emerso che il 70 per cento degli italiani ha una immagine negativa della Cina e il 75 per cento non è affatto convinto che la crescita economica del Dragone rappresenti un bene per il nostro Paese. Solo i giapponesi hanno una opinione dei cinesi peggiore della nostra. Fatto sta che il governo di Pechino non si è fatto influenzare ne’ dagli umori né dal clima poco propizio. All’inizio del Duemila, con il lancio del Going Out, la strategia di penetrazione delle imprese cinesi all’estero si fa più consistente e pervasiva. Si alleggeriscono i permessi delle autorità. In parallelo si moltiplicano gli investimenti diretti. Arriviamo così ai giorni nostri e al nostro Paese. Nel mese di luglio, la Banca centrale cinese ha comprato quote di poco superiori al 2% in società private quotate a Piazza Affari. In Fiat-Chrysler il 2%, in Telecom il 2,08%, in Prysmian, multinazionale dei cavi, il 2,01%. Si tratta di livelli apparentemente ininfluenti. Pochi mesi fa, però, analoghe acquisizioni si sono registrate nella sfera delle società a partecipazione pubblica con rendite monopolistiche: è il caso dell’Enel e dell’Eni. Anche qui la Banca centrale cinese ha rilevato quote del 2,07 % e del 2,1%. Un po’ poco per parlare di possibili scalate , ma certo quanto basta per afferrare il quadro dei rischi e dei vantaggi derivanti dai processi in atto. Oggi la Cina, per una serie di fattori che hanno caratterizzato il flusso di capitali e la delocalizzazione di imprese dall’Occidente all’Oriente, attratti da costi di manodopera più favorevoli e da un sistema di regole molto elastico, ha accumulato una potenza di fuoco di 4000 miliardi di dollari. Una cifra smisurata, frutto di crescenti investimenti in entrata e di ripetuti surplus commerciali. Mentre il governo di Pechino accumulava flussi enormi di riserve estere, si registrava, sull’altro lato della bilancia, l’incremento nel deficit delle partite correnti di molti paesi sviluppati, primo fra tutti gli Usa. Tornando all’Italia c’è ora chi dice che, con il graduale e significativo ingresso della Cina nelle partite di Pazza Affari, stia nascendo un vero e proprio “partito cinese”. È il “partito” che, ad esempio, non ha battuto ciglio nel lasciare che China State Grid comprasse il 35% del Cdp Reti, la compagnia della rete energetica a più alto tasso di rilevanza strategica del nostro Paese. Chi ne ha goduto, a quanto pare, è il presidente Franco Bassanini che dall’operazione ha ricavato 2 miliardi secchi per la compagnia. Non è finita. Nell’orbita cinese è ormai entrata anche Ansaldo Energia. Come dire: l’avanzata è costante, inarrestabile. Avviene in silenzio. Troppo in silenzio.