“Afghanistan, il grande gioco”: dai “cannoni d’agosto” del 1914 sino al conflitto odierno

26 Set 2014 11:07 - di Marco Valle

Rudyard Kipling dedicò le sue poesie più belle — The Barrak Room Ballads — agli umili soldati della regina Vittoria, ai poveri Tommies che difendevano il limes di Britannia, il grande regno della vedova di Windsor. I versi raccontano di fatiche e miserie, eroismi e tragedie: il fardello dell’impero attraverso gli occhi della thin read streak, quella sottile linea rossa stesa tra l’Africa e Hong Kong sino alle porte dell’Afghanistan, la North West Frontier. Una sottile linea rossa di fucili, casacche, uomini.

Una “ballata” in particolare colpisce per la sua crudezza. In The Young British Soldier il veterano fornisce alla recluta consigli preziosi, da quelli pratici a quelli comportamentali, a quello finale, terribile nella sua cruda verità: «E quando sei ferito e vieni abbandonato,/E arrivano le donne afghane per tagliare ciò che resta,/ Trascinati al fucile e sparati alla testa/ E vai dal tuo Dio da soldato». Un avvertimento non casuale che conferma quanto bruciante alla vigilia del Novecento fosse ancora il ricordo delle guerre anglo-afghane (1839-42 e 1878-80). Per i britannici un vero incubo, sinonimo di tremende sconfitte — ben peggiori, con buona pace degli anglofili nostrani, dell’Amba Alagi o di Adua… — culminate nella folle ritirata da Kabul del 1842: una marcia verso la morte che inghiottì 4500 soldati e oltre 14mila civili.

Meglio dimenticare. Nulla di strano: gli inglesi (e i loro storici…) sono degli specialisti nelle rimozioni, nelle amnesie. Le guerre afghane (come le sconfitte con gli zulù e le botte in Sudan con i mahadisti) sono solo dei dettagli. Minimi. Irrilevanti. Per l’editoria britannica, poi, l’epifania del defunto impero resta sempre un buon affare. Quella d’oltre Manica, come l’intendance di napoleonica memoria, segue disciplinatamente.

Fortunatamente uno storico scozzese, William Dalrymple, ha finalmente affrontato il disastro dell’armata anglo-indiana nell’Asia centrale. Con occhi nuovi. Nel suo libro “Return of a King. The battle for Afghanistan” (Bloomsbury, 2013) lo studioso caledone ha indagato il fallimento delle spedizioni albioniche in Asia centrale. Cercando di comprenderne le ragioni, i motivi, i contesti. La diagnosi di Dalrymple è spietata. Per Londra l’Afghanistan, nell’Otto-Novecento, era l’antemurale contro l’avanzata dei russi zaristi (The great game descritto da Kipling in Kim) verso i mari caldi e l’India, il gioiello della corona. Da qui l’idea avventata di conquistare una terra inconquistabile. Una follia militare e una pazzia politica. L’autore sottolinea con minuzia l’imperizia dei generali e la loro sottovalutazione delle capacità militari delle tribù pashtum e tagike e non fa sconti  all’incapacità dei politici di comprendere la complessità della realtà tribale afghana.

Storie dell’altro ieri terribilmente simili a quelle di ieri (l’invasione sovietica) e quelle di oggi (la “missione” occidentale). Le similitudini sono incalzanti, le coincidenze sorprendenti. Stessi confini, stessi clan, stesse strade, stessi luoghi. Identico il risultato: la ritirata, l’ammaina bandiera. Una sconfitta, oggi, purtroppo anche italiana. L’Afghanistan, una volta di più, si conferma la “tomba degli imperi”.

Da qui gli interrogativi, le domande. Perché, da sempre, questo Paese inospitale, poverissimo, è obiettivo di conquista, teatro di conflitti? Per quale motivo questa terra desolata e desolante è incontrollabile e i suoi popoli — un mosaico di etnie, un puzzle di clan e famiglie — sono indomabili? Da Alessandro Magno in poi, per gli stranieri l’Afghanistan rimane un rompicapo, un’equazione impossibile. Perché?
Una risposta seria, articolata e non convenzionale la fornisce Eugenio Di Rienzo nel suo libro “Afghanistan, il grande gioco” (Salerno editore). Il professore, docente di Storia moderna alla Sapienza di Roma e direttore della gloriosa Nuova Rivista Storica, ricostruisce con deliziosa impertinenza le vicende afghane, incastonandole con maestria nei processi geopolitici del tempo. Forte di una documentazione d’eccellenza (frutto di un lavoro d’archivio notevole), Di Rienzo spiega l’attualità riportandoci al 1914. Ai “cannoni d’agosto”. Quando tutto ebbe inizio. Pochi giorni dopo l’assassinio a Sarajevo dell’erede di Franz Joseph, l’Europa esplose. L’onda lunga e mortifera raggiunse anche il lontano emirato di Kabul, la destinazione più ingrata (a parte il Tibet teocratico e i vari coriandoli della penisola arabica) per ogni diplomatico in carriera. Improvvisamente il remoto staterello asiatico divenne parte di uno scontro mondiale. Tra mille difficoltà una missione tedesca-ottomana raggiunse la capitale per convincere l’emiro Habibullah ad unirsi ad un ipotetico movimento pan islamico e scatenare una guerra contro l’India britannica e la Russia zarista. Una scelta strategica e geopolitica intelligente ma velleitaria. La grande rivolta musulmana rimase un’illusione e le linee del fronte si stabilizzarono lontano, troppo lontano, dallo sguardo del monarca. Il prudente sovrano — sebbene anglo e russofobico — fece orecchie da mercante, si mise in attesa delle armate turco-germaniche e, infine, liquidò con tante belle parole e nessun impegno i Lawrence teutonici. La missione fu un fallimento — come tutti gli altri tentativi insurrezionali germanici in Medio Oriente e in Asia — ma Berlino non dimenticò Kabul. All’indomani della caduta del kaiser, la repubblica di Weimar — una realtà statuale ben più seria dell’immagine fatua che tuttora la circonda — rilanciò una politica asiatica spregiudicata quanto ambiziosa, fissando nel proprio nell’Afghanistan uno dei suoi punti di riferimento geo economici.

Tra il 1923 e il 1939 la Germania, nuovamente potenza industriale e ormai scevra da appetiti territoriali, si propose come il partner ideale del misero ma orgoglioso emirato ed investì capitali importanti per la modernizzazione del Paese. Una presenza dinamica che allarmò subito gli ingombranti vicini: il governo britannico di Delhi e l’Unione Sovietica. Negli anni le due potenze cercarono di marginalizzare gli invasivi germani e tentarono di satellizzare a loro vantaggio il Paese. In un inquietante “gioco delle ombre” sovietici e inglesi a più riprese fomentarono disordini interni e minacciarono invasioni e ricatti economici. Senza successo. Incredibilmente, nonostante le crisi dinastiche, le faide claniche e la terribile miseria del popolo, Kabul riuscì a conservare la propria libertà d’azione e una politica estera autonoma, apparentemente ondivaga ma pagante. In quel tempo, come ricorda Di Rienzo, anche l’Italia mussoliniana cercò di ricavarsi uno spazio politico ed economico nell’Asia centrale. Con risultati alterni. A fronte degli sforzi dei nostri diplomatici — in primis l’ambasciatore Piero Quaroni — i rapporti e gli interscambi rimasero modesti. Colpa, una volta di più, di visioni ristrette, superate. Passatiste. La parola all’autore: «Come accadde per la vicenda dello sfruttamento delle risorse petrolifere irachene la politica estera italiana ancorata al dogma dell’”acquisizione territoriale” e incapace di comprendere il moderno concetto di “sfera d’influenza”, si dimostrò inadeguata a confrontarsi con la sperimentata diplomazia dei vecchi Stati coloniali, scontando la mancanza di un disegno strategico diverso dalla tutela degli interessi del “cortile di casa” mediterraneo». Un ritardo culturale che segnerà (penalizzandolo) l’intervento bellico italiano nel giugno 1940 e le vicende successive. Un dato importante su cui la signora Mogherini dovrebbe riflettere.

Passiamo al 1939. In quell’anno preoccupazioni inglesi raggiunsero il parossismo all’annunucio del patto Molotov-Ribbentropp. L’intesa tra le due principali potenze totalitarie — un processo complesso, mirabilmente indagato dal professore e da Eugenio Gin in Le potenze dell’Asse e l’Unione Sovietica (Rubbettino editore) — sconvolse il quadro geopolitico del tempo. Ovunque. Anche in Afghanistan. Come indica Di Rienzo «grazie a quell’accordo le antiche ambizioni russe di arrivare ai Dardanelli, al Golfo Persico e a quello del Bengala si saldavano con quelle del Terzo Reich determinato a smantellare, servendosi dell’intesa edificata tra irredentismo arabo, estremismo islamico e nazismo, le posizioni di supremazia acquisite da Francia e Inghilterra in Medio Oriente, Asia e India». Un’occasione unica, foriera d’implicazioni straordinarie ma tutte incredibilmente perdute. Sprecate. In ogni caso, in quei mesi l’Afghanistan ridivenne centrale. La polverosa corte di Kabul fu al centro di mille manovre, intrecci e complotti; il Khyber Pass, la frontiera, si trasformò improvvisamente in un piccolo fronte di guerra della grande guerra mondiale. Le tribù (ben pagate dagli agenti dell’Asse) insorsero, i nazionalisti indiani si misero in febbrile attesa dei nemici della Gran Bretagna. Una partita sconosciuta ma micidiale in cui l’Italia, grazie a Quaroni, ebbe un ruolo importante. Poi tutto iniziò a scorrere velocemente: la rottura tra Hitler e Stalin, la campagna di Russia, Stalingrado, il crollo della Germania. Nel 1943, con pragmatismo, i signori afghani dimenticarono le loro simpatie hitleriane e ripresero a dondolare tra l’Urss e l’Occidente. Usciti di scena gli inglesi, fu il turno degli americani e (nuovamente) dei sovietici. Il re Zahir Shah (un uomo colto e disincantato, innamorato dell’Italia) e il suo primo ministro (oltre che cognato) Mohammed Daud chiesero a tutti soldi, armi e tranquillità. Un equilibrio precario ma funzionale. All’Afghanistan e al mondo.

Tutto s’interruppe nel 1973. Daud detronizzò il reale parente e proclamò una bislacca repubblica appoggiandosi ai generali filo-sovietici. Per tutta riconoscenza nel 1978 gli ingrati comunisti locali lo accopparono assieme a tutta la famiglia e s’inventarono un’improbabile rivoluzione operaia afghana per poi iniziare subitamente a massacrarsi tra loro. Nel dicembre 1979, disgustato dai compagni afghani, il senescente segretario generale del Partito Comunista sovietico Leonid Breznev ordinò l’invasione. Quella che doveva essere una semplice operazione di polizia (il solito aiuto ad un “partito fratello”) divenne una tragedia che scatenò la ribellione (sacrosanta) contro l’Armata Rossa e determinò — incorniciato nelle ambigue manovre con i sauditi e i pakistani — l’appoggio degli Usa agli integralisti d’ogni dove (compreso l’allora giovane e “affidabile” miliardario saudita Osama bin Laden). Tutto si concluse nel 1989 con l’implosione dell’Urss. Una vittoria per l’Occidente. Almeno apparentemente. Pochi, pochissimi compresero (e comprendono) i rischi e i pericoli che lo “scorpione afghano” riserva. Le incredibili miopie delle Cancellerie, la stramba sbadaggine dei servizi segreti debbono far pensare.

Eugenio Di Rienzo non fa sconti. Quando crollò “l’impero del male” sovietico, nessun presidente, nessun analista e nessun generale «previde allora che la stessa forza che aveva piegato l’Armata Rossa avrebbe violato, in un mattino di settembre 2001, il cielo di New York, trasformando per migliaia di americani la guerra degli altri in guerra di casa». In conclusione, è tempo di realismo politico. Di analisi e freddezza. Di progetti storici. Purtroppo da decenni il mondo occidentale ha esaurito ogni “novità”, ha smesso di pensare in termini di Grande politica. Gli errori sono pesanti, forse senza rimedio. Nel Levante, in Africa, in Medio Oriente, in Asia centrale. In Afghanistan. L’autore è pessimista. Temiamo a ragione.

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