Centrodestra unito sulla riforma dell’articolo 18: basta barricate ideologiche
L’articolo 18 si conferma un totem per la sinistra e il sindacato che tornano a mettere un freno all’agenda di Matteo Renzi che nel Jobs Act prevede il superamento dell’articolo 18. Per ora arriva il cosiddetto “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti” con il quale il governo modifica la delega in Senato per tenersi le mani libere. In casa renziana è Cesare Damiano, presidente commissione Lavoro a Montecitorio, a mettere i paletti alla baldanza del premier minacciando di scatenare mezzo partito: «Nella direzione del Pd che sarà convocata a fine mese dovrà essere chiarita qual è la posizione del partito. Ritengo sbagliato che in questo momento di massima disoccupazione si voglia lasciare la libertà di licenziare alle imprese. Si può andare allo scontro o cercare un compromesso». Ancora più duro Matteo Orfini, presidente dell’Assemblea nazionale Pd, che in un tweet fa le pulci a Palazzo Chigi: «I titoli del Jobs Act sono condivisibili. Lo svolgimento meno: ne discuteremo in direzione, ma servono correzioni importanti al testo»; nel post non c’è nessun richiamo diretto all’articolo 18, ma il riferimento è chiaro. Si fida del premier, invece, l’alfaniano Maurizio Sacconi, presidente della commissione Lavoro a Palazzo Madama, per il quale «la possibilità di scrivere quel testo unico semplificato cambiando tre articoli chiave ( il 4, il 13 e il 18) è la migliore soluzione che io potessi auspicare. L’indennizzo in caso di licenziamento sarà proporzionato all’anzianità di servizio e sparisce il reintegro». Per l’azzurro Renato Brunetta, «se si toglie l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, il mercato del lavoro italiano funzionerà come quello tedesco o statunitense. Invece di obbligare le aziende al reintegro in mancanza di giusta causa si dia un indennizzo al lavoratore». Giorgia Meloni da sempre contesta l’approccio ideologico al dibattito in corso: «Dobbiamo mettere sul piatto della bilancia quello che il provvedimento tutela, così come formulato, e confrontarlo con il limite agli investimenti che può comportare per tutti, anche per coloro che non sono tutelati dalla norma. Stiamo parlando di un provvedimento che in Italia riguarda il 30% dei lavoratori, percentuale che di solito esclude i nuovi lavoratori e dunque i giovani, mentre non ci poniamo il problema di aver costruito una nazione a due velocità, nella quale esistono lavoratori di serie A e di serie B».
Nessuno dei paladini dell’articolo 18 parla del particolare non irrilevante che riguarda solo le medie imprese che superano i 15 dipendenti mentre l’ossatura dell’economia italiana è rappresentata dalle piccolissime imprese (oltre quattro milioni e mezzo) che producono la stragrande maggioranza del Pil e sono strangolate da lacci e lacciuoli. «Non si può continuare a portare avanti dibattiti puramente ideologici sull’articolo 18: bisogna rassegnarsi al fallimento delle misure sul lavoro giocate sulle regole piuttosto che sul rilancio dell’economia – è il parere del deputato di Forza Italia Renata Polverini, già leader dell’Ugl – In un mercato interno fermo a cui corrisponde uno estero non più competitivo occorre concentrarsi su come aumentare il potere di acquisto dei lavoratori anche attraverso forme di reale partecipazione agli utili». Per il segretario generale dell’Ugl, Geremia Mancini, «si tratta di mosse superficiali e colpevoli da parte del governo. Il continuo assalto al sindacato ha una ragione ben precisa, essendo le organizzazioni dei lavoratori ostacolo alla “mattanza sociale” che si va delineando ogni giorno di più».