Dopo la sentenza-choc della Cassazione la protesta è unanime: lo stupro non è opinabile
Non si placano le polemiche scatenate dalla sentenza choc emanata dalla Corte di Cassazione, secondo la quale gli imputati per stupro possono ottenere l’attenuante – con relativo sconto di pena – di aver commesso un fatto «di minore gravità» anche nel caso di violenze carnali «complete» ai danni delle donne. Secondo i supremi giudici, infatti, che nel caso specifico di cui si parla hanno accolto il ricorso di un violentatore al quale la Corte di Appello aveva confermato la condanna già emessa da un gip, la «tipologia» dell’atto «è solo uno degli elementi indicativi dei parametri» in base ai quali stabilire la gravità della violenza, e non è nemmeno un elemento «dirimente». Il che, tradotto dal lessico accademico legalese e depurato dai barocchismi del burocratichese, altro non significa che possono esistere diverse fattispecie del reato in questione, più o meno gravi, con la ovvia e pericolosissima conseguenza di creare inaccettabili precedenti a future sentenze sul reato di stupro. Un crimine odioso e lesivo del corpo e della psiche di una donna per il quale, secondo la deputata forzista Alessandra Mussolini, da noi contattata, «non può e non deve esistere una gradazione, come per il vino. È un reato e basta: non sono ammissibili giustificazioni e attenuanti». E trovarne, nei meandri dell’interpretazione giuridica, declinabile a seconda di chi la propone, è una scelta altrettanto grave. «Purtroppo i giudici – conclude infatti la Mussolini – non sono nuovi al vizio di un eccesso di tecnicismo: non capiscono che entrare nel dettaglio per forzare schemi e conclusioni rischia di stemperare la gravità dei fatti che vanno ad analizzare e sanzionare, creando una confusione che dà luogo, come in questo caso in oggetto, a inaccettabili sconti di pena. Ma una condanna non può essere graduata come il valore alcolico di un vino: il rischio che si corre, tra l’altro, è quello di dare una possibilità – anche di recidivare nel reato per esempio – alla persona che si macchia di un crimine così odioso».
Così come il totale libero arbitrio esercitato da parte di togati ed ermellini nella stesura di una sentenza offre il fianco a conclusioni offensive sul piano della verità dei fatti oltre che della morale comune. Come accaduto nel precedente datato 1999 quando ancora una volta la Suprema Corte negò l’esistenza del reato di stupro perché in quel caso la vittima indossava i jeans: un indumento – a detta del collegio giudicante – impossibile da sfilare senza la collaborazione di chi lo indossa. «Questa sentenza di ieri mi ricorda molto quella passata alla storia giudiziaria come la “sentenza dei jeans” – ci dice a riguardo Roberta Angelilli, ex parlamentare europea ora esponente del Nuovo centrodestra – Il risultato, del resto, è lo stesso: si rischia di portare sul banco degli imputati non già lo stupratore, ma la vittima dell’abuso. Alla quale poi magari bisognerà chiedere com’era vestita; che tipo di atteggiamenti avesse avuto nei confronti del suo violentatore, e così via. Il rischio di una deriva di tal fatta – aggiunge la Angelilli – è altissimo purtroppo. Non possiamo trovare degli alibi a uno stupratore, che tale rimane, e che non può avere nessun tipo di giustificazione di alcun genere». Dunque quanto e come influisce questo totale libero arbitrio esercitato dai giudici nell’interpetazione della legge, su regole sociali, diktat morali e input comportamentali? «Pesantemente – conclude Roberta Angelilli – credo che sia venuto il tempo per i magistrati di far rispettare le leggi, non di interpretarle a loro piacimento. Magari ci sono alcune norme che sono scritte in maniera tale da lasciare spazio alla loro interpolazione, ma nel caso del reato di stupro bisogna essere davvero in malafede per trovare dei cavilli al fine di dare delle giustificazioni a uno stupratore. La violenza carnale, peraltro, è un reato inasprito dal precedente governo Berlusconi, e io credo che vada trattato senza se e senza ma: e possibilmente sempre nelle forme più rigide».