Sulle nomine Ue il sigillo della Merkel: al “mastino” Kaitanen la supervisione dell’economia. Beffati noi e i francesi
Finisce pari e patta la sfida tra “falchi” e “colombe” in seno alla nuova Commissione Europea guidata da Jean Claude Juncker, in pratica l’esecutivo del Vecchio Continente. Anzi, a voler dare alle nomine il loro giusto peso politico è molto più esatto sostenere che dalla contesa escono meglio i fautori dell’austerity di impronta tedesca che non i sostenitori dell’allentamento del patto di stabilità raccolti intorno all’asse italo-francese. Se quest’ultimi infatti hanno strappato la nomina di Pierre Moscovici alla guida degli Affari economici, i primi hanno replicato piazzando sulla testa dell’economista d’Oltralpe il finlandese Jyrki Katainen, un vero guardiano del rigore del bilancio. Katainen è vicepresidente (in tutto sono sette compresa Federica Mogherini, che ha avuto la politica estera) con la delega alla Crescita. Di fatto è una sorta di superministro che supervisionerà e ridimensionerà il ruolo di Moscovici. Non è difficile intravedere in questa scelta l’abile regia della Merkel, che con una mano ha concesso ai socialisti “latini” portafogli importanti (e quello dato ai francesi lo è molto di più di quello dato all’Italia) e con l’altra ne ha subito limitato il raggio d’azione imponendo loro di raccordarsi con il “mastino” finlandese.
È fin troppo evidente che il compromesso raggiunto è destinato a non sciogliere i nodi di fondo che ancora tengono legata questa fase del processo di integrazione comunitaria alle logiche degli Stati nazionali, soprattutto quelli del Nord-Europa. È infatti molto probabile che la coabitazione tra Moscovici e Kaitanen frenerà sia i fautori del rigore del bilancio sia i sostenitori di politiche meno rigide: il risultato sarà uno stallo all’interno del quale saranno ancora i Paesi più forti (Germania, Finlandia, Olanda) a dettare la linea. E comincia ad emergere in tutta la sua chiarezza quanto sia stata miope la strategia italiana tutta protesa all’ottenimento di un dicastero, gli Esteri appunto, del tutto privo di reale peso politico. Se Roma e Parigi avessero fatto discendere i nomi da un obiettivo politico (la mitigazione delle politiche di bilancio) e non il contrario, probabilmente non staremmo qui a commentare un’altra vittoria di Angela Merkel.