Via Poma, la Cassazione stronca i magistrati romani: “Busco condannato a 24 anni solo sulla base di congetture”

24 Set 2014 20:39 - di Redazione

Contro Raniero Busco, l’ex fidanzato di Simonetta Cesaroni uccisa a Roma il pomeriggio del 7 agosto del 1990 in via Poma, non ci sono prove in grado di accusarlo «oltre ogni ragionevole dubbio» di essere l’assassino. Anzi, gli elementi che in primo grado hanno portato alla sua condanna a 24 anni di carcere, sono da considerare solo delle «congetture».
E’ questa la conclusione della Cassazione sul delitto di Via Poma che, dunque, rimane un grande caso irrisolto di cronaca nera con un colpevole ancora protetto nel cono d’ombra di indagini inconcludenti e molti «punti oscuri».
In trenta pagine di motivazione è contenuto l’epitaffio degli “ermellini” al processo riaperto a carico di Busco nel 2004, dopo l’archiviazione per gli altri indagati, il portiere Pietrino Vanacore e il giovane Federico Valle. Solo dieci anni fa, infatti, il medico legale Carella Prada, che aveva effettuato il sopralluogo sulla scena del crimine, aveva restituito alla Procura gli indumenti della ragazza rimasti in suo possesso. Il reggiseno, il corpetto e i due calzini.
Ad avviso della Suprema Corte il verdetto di proscioglimento di Busco emesso dalla Corte d’Assise d’appello di Roma il 27 aprile 2012, non è da mettere in discussione perchè risponde alle regole della «congruità e completezza della motivazione» ed ha una «manifesta logicità».
In particolare – scrivono i supremi giudici della Prima sezione penale, sentenza 39220 – «si dimostra la insostenibilità», in mancanza della prova di un morso sul seno di Simonetta, della tesi «della sua attribuzione a Busco e dell’origine salivare del Dna presente sui capi di vestiario repertati».
«Non c’è nessuna prova» che il segno sul seno sia dovuto «ad un morso» nè che tale morso sia «attribuibile» a Busco.
In proposito, i supremi giudici ricordano che Carella Prada, «l’unico professionista che aveva esaminato il cadavere, non aveva affatto affermato con certezza che quei segni fossero stati prodotti da un morso; nè in sede di verbale autoptico, nè in sede di escussione dibattimentale».
Per quanto riguarda il morso e la sua attribuibilità a Busco, circostanze che sono state il perno dell’accusa e del giudizio di colpevolezza espresso in primo grado, la Cassazione rileva che la tesi del morso era solo «un’ipotesi (non l’unica) e i pareri indicano una compatibilità tra i segni sul corpo della vittima e la dentatura di Busco».
«Come si vede – prosegue la Cassazione – si tratta di due passaggi diversi (attribuibilità dei segni ad un morso; attribuibilità del morso a Busco) per nessuno dei quali viene espressa una certezza di carattere scientifico».
Invece, osserva la Suprema Corte, sia il ricorso del Procuratore generale della Corte d’appello di Roma sia quello dei familiari di Simonetta contro il proscioglimento di Busco, presentano come «una certezza espressa da tutti i consulenti (perfino quello della difesa dell’imputato)» che il segno sul seno è un morso, e che il morso è stato dato da Busco.
Gli “ermellini” mettono in luce anche che di questo presunto morso manca del tutto la traccia dell’arcata dentale «opponente», circostanza che rende «evidente il pericolo di giungere a conclusioni abusive».
Tra le circostanze date in primo grado per “pacifiche” e invece ritenute solo di ordine «congetturale» nel giudizio di appello e ora anche dagli “ermellini”, la Suprema Corte elenca tutti i capisaldi dell’accusa.
In pratica, non c’è alcuna certezza sulla «effettuazione della telefonata da Simonetta a Busco all’ora di pranzo» del 7 agosto 1990, «il contenuto di tale telefonata» non è noto.
Inoltre non è affatto provato che Busco avesse «conoscenza» del luogo dove Simonetta lavorava. Così come non è provato che la ragazza si svestì spontaneamente – come vuole la tesi “colpevolista” – e non per costrizione. Rimane circondato dal mistero «l’autore dell’opera di ripulitura della stanza» dove Simonetta è stata pugnalata con 29 stilettate.
Non si sa nulla di sicuro sulle «modalità e i tempi» dell’azione omicidiaria, sul «movente» dell’omicidio, e nulla autorizza a ritenere «falso» l’alibi di Busco.
Non è nemmeno sicuro che l’ex-fidanzato di Simonetta fosse in Via Poma quel giorno, mentre è sicuro che ci sono state altre persone delle quali si è trovato il Dna «minoritario» sulla porta di ingresso della stanza dove si trovava Simonetta e sul telefono dell’ufficio.

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