Stato-mafia, i penalisti contro la testimonianza “blindata” di Napolitano: calpestato il diritto della difesa
«Le motivazioni in base alle quali è stato escluso il diritto a partecipare degli imputati, ovvero l’impossibilità di consentire che tale partecipazione avvenisse tramite videoconferenza, perché strumento previsto solo per le attività svolte in un’aula di giustizia, appaiono come un debole velo alle reali ragioni della scelta che mira (tardivamente e ipocritamente) a tutelare l’onorabilità del Quirinale, a scapito dell’inviolabile diritto di difesa che non è solo tecnica ma anche personale».
L’Unione Camere Penali si scaglia contro la decisione di far partecipare i boss mafiosi e l’ex-ministro Mancino alla deposizione del capo dello Stato, Giorgio Napolitano.
Intervenendo con una nota sulla decisione assunta dai giudici di Palermo di non consentire la partecipazione degli imputati all’assunzione della testimonianza del presidente Giorgio Napolitano in Quirinale, l’Ucpi rileva che questa decisione ha dato luogo a «diffuse manifestazioni pubblici ministeri, etichettata come una manifestazione di civiltà giuridica con la quale si erano fatte prevalere le logiche di trasparenza ed i fini di accertamento della verità con riferimento a fatti di indiscutibile rilievo per la vita del Paese, e altrettanto entusiastico apprezzamento era stato manifestato in favore della decisione della Corte di Assise di accogliere tale richiesta».
Per i penalisti la questione assume in realtà «il valore simbolico di uno scontro tra poteri dello Stato, al quale sono stati sacrificati, assieme alle prerogative e le tutele costituzionali del presidente della Repubblica, delineate con chiarezza dalla sentenza n. 1/2013 della Corte Costituzionale, anche i fondamentali valori del processo penale».
E Napolitano, «con la sensibilità istituzionale che ha sempre contraddistinto la sua azione – aggiunge l’Ucpi – aveva infatti chiarito di non poter dare alcun contributo conoscitivo al processo, proprio nel tentativo di scongiurare ciò che oggi si sta verificando: il perverso intreccio di violazioni e di prevaricazioni potenzialmente produttivo di un corto circuito istituzionale e processuale che è la diretta, logica e inevitabile conseguenza di quella originaria “prova di forza”».
I penalisti concludono che «negare a un imputato il diritto di partecipare all’udienza, costituisce un gravissimo vulnus ad un diritto costituzionalmente garantito, in quanto il diritto di partecipare all’udienza (anche per tramite della videoconferenza) è sancito tanto dalla nostra Costituzione quanto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a cui non sembra poter opporsi, in base a un ragionevole bilanciamento, l’immunità di cui gode il Quirinale, atteso che a quell’immunità il presidente della Repubblica ha già rinunciato accettando di rendere testimonianza».