Tra “padroni” e imprenditori meglio “capitano d’industria”. Ma il copyright è del Duce
Padroni o imprenditori? Ha vinto facile Matteo Renzi nel sottolineare come il lessico utilizzato da Massimo D’Alema nel corso dell’ultima Direzione Nazionale del Pd non fosse più in sintonia con lo spirito dei tempi e con una società ormai indifferente ai problemi di “classe” ed al tema della proprietà dei mezzi di produzione. Una semplice definizione è però bastata ad innalzare tra il nuovo premier ed il vecchio leader un muro d’incomunicabilità, quasi che la lenta evoluzione del linguaggio avesse subito un’accelerata tale da rendere incomprensibili all’uno le parole dell’altro. Un po’ come se, seduti allo stesso tavolo, un padre parlasse in latino ed il figlio in italiano.
È fin troppo chiaro che a dividere i due è non tanto l’anagrafe quanto la diversa matrice culturale. Il lìder Maximo scorge nell’abbattimento di antiche tutele lo spauracchio di un lavoro servile di ritorno; il “Rottamatore” vuole superare vecchie barriere ideologiche ricordando che al giorno d’oggi “padroni” e lavoratori sono entrambi vittime della crisi. D’Alema ha attinto dal linguaggio e dall’esperienza comunista del Novecento, Renzi ha usato concetti non estranei alla socialdemocrazia interclassista. È una differenza destinata a pesare nel dibattito interno ai Democrats.
Chi dei due ha ragione? Impossibile stabilirlo. Forse tutti e due. Forse nessuno, nel senso che alla fine il tutto si può derubricare a mera questione nominalistica da archiviare per intervenuta cessazione della materia del contendere. Un tempo, quando non c’erano sussidi all’impresa e al diritto di sciopero si opponeva quello di serrata, i “padroni” erano quelli che rischiavano i soldi e pagavano un tozzo di pane agli operai. Dopo la Grande Guerra diventarono “pescecani”, almeno quelli che con le commesse militari avevano realizzato enormi profitti. Nomina sunt consequentia rerum, avvertivano gli antichi. Con ragione. Benito Mussolini, già direttore socialista dell’Avanti!, da deputato fascista eletto nel cosiddetto Blocco Nazionale nel 1921 trasformò il “padrone” in “capitano d’industria” e ne tessé l’elogio alla Camera in un discorso nel quale si schierò in favore delle privatizzazioni: nei telegrafi, nelle ferrovie e persino nelle scuole.
In realtà, non esiste una definizione valida sempre ed ovunque così come l’economia politica non conosce ricette evergreen. Il New Deal, cioè il più imponente programma di lavori pubblici mai realizzato da una nazione, nacque negli Usa patria del liberismo capitalista per arginare la Grande Depressione del 1929. In piccolo, più o meno lo stesso avvenne nell’Italia fascista con l’Iri, il timone dell’intervento pubblico voluto proprio da quel giovane deputato che solo pochi anni prima aveva detto di “averne abbastanza del socialismo di Stato”. Per la cronaca, in quello stesso intervento il futuro Duce affermò chiaro e tondo che “il capitalismo non è solo un sistema di oppressione, ma è anche una selezione di valori, una coordinazione di gerarchie, un senso più ampiamente sviluppato della responsabilità individuale”. E, all’epoca, il “moderno” si rivelò lui.