Jobs act, nuova lite Ncd-Pd. Fdi: «Non facciamo i notai di Renzi»

17 Nov 2014 20:49 - di Guido Liberati

Volano gli stracci tra Ncd e Pd sulle modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori da inserire nel Jobs act all’esame della Camera. Domani il governo presenterà un emendamento al comma 7 (quello che prevede l’introduzione del contratto a tutele crescenti) per recepire l’accordo raggiunto all’interno del Pd sui licenziamenti disciplinari ma su questo si è scatenata l’ira del partito di Alfano perché il nuovo testo non corrisponde a quanto concordato. Il capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta prende la palla al balzo e dice: «Jobs Act, botte da orbi in maggioranza. Ncd prima abbocca, poi si accorge della presa in giro e reagisce. Un bel vaffa, no? Forza Maurizio Sacconi». Tutto è iniziato dall’annuncio del sottosegretario al Lavoro, Teresa Bellanova (nella foto) che aveva parlato di «riformulazione» senza novità ma ha spiegato che nella delega sarà inserita la previsione della reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamenti disciplinari «per un motivo dichiarato da un giudice nullo o inesistente». Immediata la replica di Maurizio Sacconi. L’emendamento «non corrisponde a quanto concordato. Se vedessimo – ha avvertito il capogruppo Ncd – un testo diverso da quello che conosciamo, ce ne andremmo dalla Commissione e si aprirebbe un bel contenzioso nella maggioranza». In pratica, il conflitto che si era aperto al Senato e che alla fine aveva prodotto un testo di delega «ampio» e senza nessun riferimento all’articolo 18 si è trasferito alla Camera dove (inserendo la reintegra per i licenziamenti disciplinari ingiustificati) per ricompattare il Pd si rischia ora di rompere con il Nuovo centrodestra. E nel Pd Gianni Cuperlo già annuncia che aspetta di «vedere quale testo arriverà all’attenzione dell’aula. Se il testo fosse rimasto quello del Senato io non l’avrei votato».

FdI contro l’accelerazione: «Non siamo i notai di Renzi»

Di sicuro, per ora, c’è solo che il voto finale sul jobs act dovrà arrivare nell’aula della Camera entro il prossimo 26 novembre: così come deciso dall’assemblea di Montecitorio. Contro l’accelerazione hanno votato tutte le opposizioni. «Non è la segreteria del Pd – ha detto nel suo intervento in aula il capogruppo di Fdi-An Fabio Rampelli – che può dettare i tempi dei lavori alla Camera dei deputati. La richiesta pervenuta dal governo di anticipare i tempi per l’esame del Jobs act si somma alle continue fiducie e al numero del decreti legge». Secondo Rampelli «il Pd ha impiegato sei mesi per sanare le diatribe interne e oggi chiede alla Camera di procedere immediatamente al licenziamento della legge sul lavoro. Loro ne hanno parlato e sono paghi… I deputati non sono però i notai di Renzi. La verità è che anche questa legge è un fuoco di paglia, nessuno cenno alla decontribuzione sui nuovi assunti, nessuna rivoluzione tesa a trasformare i lavoratori da salariati a partecipi della gestione e degli utili dell’azienda, nessun investimento straordinario per creare nuova occupazione falcidiando il costo del lavoro per liberare le energie delle imprese italiane».

La maggioranza rischia di saltare sul comma 7

Una fretta contestata anche da Renata Polverini. Secondo la vicepresidente della Commissione Lavoro, «Matteo Renzi ha l’urgenza di togliere dal tavolo un provvedimento (il Jobs act) che per il suo aspetto ideologico continua a dividere il suo partito, con dei rischi di scissione, e a mettere in una situazione di fibrillazione permanente la maggioranza». Domani, intanto, arriverà l’emendamento del governo sul comma 7 (quello che tratta il contratto a tutele crescenti ma anche mansioni e controlli a distanza) con l’obiettivo di chiudere l’esame in Commissione giovedì 20 e approdare in Aula il 21 (con il voto finale previsto per il 26). Un voto dall’esito tutt’altro che scontato.

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