Napolitano ha confermato il tentato golpe ma lo sconfitto è Ingroia
Le stragi mafiose del ’93? Furono fatte per destabilizzare. La strage di via D’Amelio dove morì Paolo Borsellino? Accelerò, anziché rallentare, l’introduzione del 41 bis. L’incontro con il generale dei carabinieri Mario Mori? Mai avvenuto. Il misterioso black-out che isolò, nella notte tra il 27 e il 28 luglio del 1993, tutte le linee telefoniche di Palazzo Chigi, interne ed esterne? Un tentativo di colpo di Stato. Posati gli stracci che sono volati in questi anni sulla storia della trattativa Stato-mafia, a ventiquattrore dalla pubblicazione sul sito del Quirinale dei verbali della testimonianza resa dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, alla Corte di Assise di Palermo, si materializza il fantasma del vero sconfitto di questa messinscena, l’ex-pm Antoio Ingroia.
Napolitano “blindato” dalla Corte d’Assise
Napolitano “blindato” dalla Corte presieduta da Alfredo Montalto risponde con agio e scioltezza alle domande. E si permette anche qualche ironia dribblando le domande più insidiose grazie agli assist del presidente Montalto. Che blocca sul nascere le questioni poste, per esempio, da Luca Cianferoni, il legale di Totò Riina. Resta il fatto che le 86 pagine di verbale del capo dello Stato demoliscono con una certa facilità la fantasiosa ricostruzione dell’allora pm Ingroia, ancorato oggi alla poltrona di Commissario della Provincia di Trapani mentre il presidente della Regione Siciliana, Rosario Crocetta, che lì l’ha nominato dopo la trombatura dell’ex-magistrato nelle file della “sua” Rivoluzione Civile, vacilla pericolosamente.
Fa quasi tenerezza andarsi a rileggere quello che scriveva Ingroia sul suo sito Rivoluzione Civile, ora evaporato, quando ancora era convinto di essere il leader del partitino che avrebbe cambiato l’Italia: «la #trattativa tra stato e mafia c’è stata. Lo dicono sentenze definitive». Nelle tre ore di faccia a faccia fra Napolitano, la Corte, arrivata apposta da Palermo al Quirinale assieme ai pm Vittorio Teresi e Nino Di Matteo, e lo stuolo di avvocati, non c’è una virgola che faccia scopa con quello che sosteneva Ingroia.
Resta il “giallo” sulla frase di Loris D’Ambrosio
Per Loris D’Ambrosio, strettissimo collaboratore di Napolitano conosciuto nel ’96 al Viminale quando l’attuale capo dello Stato era ministro dell’Interno e poi ritrovato al Quirinale al suo insediamento e confermato nello staff con compiti maggiori rispetto a quelli che gli aveva assegnato il suo predecessore Carlo Azeglio Ciampi, il presidente della Repubblica spende parole dorate ricordandone «lealtà», spirito di servizio, senso dello Stato, attaccamento al dovere. E insiste più volte sull’angoscia che attanagliò D’Ambrosio, ex-magistrato, dopo la campagna di stampa seguita alla pubblicazione delle intercettazioni delle sue telefonate con l’ex-ministro Nicola Mancino, tra gli imputati del processo. «Era un uomo profondamente scosso, amareggiato perché vedeva mettere in dubbio la sua lealtà di servitore dello Stato. La sua era una lettera di uomo sconvolto, scritta d’impulso, con l’obiettivo di dimettersi», si è accalorato Napolitano in merito alla lettera del giugno 2012 in cui il collaboratore annunciava la volontà di lasciare l’incarico. Ma sul passaggio dello scritto in cui D’Ambrosio cripticamente alludeva a timori di avere fatto «l’utile scriba» usato come scudo di «accordi indicibili» tra il 1989 e il 1993, passaggio che i pm interpretano come l’allusione del consigliere al fatto che il suo lavoro nella preparazione di leggi antimafia fosse un paravento di una sorta di trattativa sotterranea, Napolitano è netto: mai saputo nulla. «Non ebbi con lui discussioni sul passato». Resta, però, ad aleggiare misteriosa quella frase, «come detto anche ad altri», utilizzata da D’Ambrosio nella lettera. Cosa voleva dire? Non si sa. E la testimonianza di Napolitano non ha sciolto il giallo.
La ricostruzione sbagliata di Ingroia
Comunque tutto va in senso contrario a quanto aveva ricostruito l’allora pm Ingroia. Le bombe del ’93 che, nella ricostruzione di Ingroia dovevano servire ad ottenere l’allentamento del carcere duro trovano invece una risposta unitaria da parte dello Stato che valuta quella raffica di attentati come un tentativo di destabilizzare il Paese.
La strage di Capaci, prima dell’attentato a Borsellino in via D’Amelio, strage che, nell’ipotesi dell’accusa aprì la strada al cosiddetto “papello“, la richiesta di una trattativa, consegnato da Vito Ciancimino ai carabinieri , in realtà non determinò «contrapposizioni gravi sul da farsi» né «distinzioni» fra i partiti. Insomma «non avevano dubbi su quella linea», che era, appunto, quella di convertire in legge il decreto sul 41 bis. Decisione che poi, appunto, accelerò all’indomani della strage di via D’Amelio. Insomma, se ci fu una strategia della mafia per allentare la pressione dello Stato sui boss in carcere, questa strategia ottenne l’effetto contrario. Con buona pace di Antonio Ingroia.