La tragedia dei nostri soldati in Russia: lasciati morire solo perché italiani
Il titolo – I prigionieri italiani in Russia (ed. il Mulino, pp. 495, 29 euro) – sembrerebbe aggiungere nulla o poco all’immane tragedia dei nostri soldati catturati dai sovietici nel teatro orientale del secondo conflitto mondiale. Ma non è così: infatti, a seguito di un intenso e certosino lavoro di ricerca negli archivi di Roma e di Mosca, l’autrice, Maria Teresa Giusti, è riuscita ad aggiungere particolari inediti ad una delle pagine più dolorose della nostra storia nazionale, già da lei trattate in una precedente versione edita nel 2003.
La direttiva di Stalin
Una prima novità, non l’unica, rispetto ad allora è rappresentata dalle foto dei militi dell’Armir (Armata italiana in Russia). Basta soffermarsi sui loro volti scarnificati dalla fatica dalla fame per rendersi conto che quegli occhi avevano già compreso l’amaro destino che li attendeva. Molti morirono di fame. Il loro tasso di mortalità supererà persino quello dei tedeschi, verso i quali è presumibile fossero ancor più vessatorie ed implacabili le “attenzioni” dei carcerieri sovietici. Ma l’aspetto più importante dell’edizione attuale è la scoperta di una direttiva emanata da Stalin nel giugno del 1945. Una sorta di manuale per lo sfruttamento dei prigionieri come manodopera coatta. Strano a credersi, tali direttive restarono a lungo lettera morta a causa della totale disorganizzazione che regnava nei campi d’internamento. Nel frattempo i soldati italiani continuarono a morire, anche ad onta dell’impegno a migliorarne le condizioni profuso dalla Nkvd, il ferocissimo apparato repressivo comunista. E si capisce: la manodopera dei prigionieri costituiva un apporto preziosissimo nei Paesi sconquassati dalla guerra e la Russia tra questi. Era quindi loro interesse tenerli in vita.
I comunisti nostrani
E che non si trattasse di “buonismo” lo conferma un ulteriore aspetto evidenziato dalla Giusti, grazie al quale scopriamo che a molti italiani vennero attribuiti crimini di guerra non perché autori di atrocità ma solo perché fascisti convinti. Costoro furono utilizzati come merce di scambio insieme al personale diplomatico italiano della Rsi catturato dai sovietici in Romania. Per riaverli in patria, nel 1949, il governo italiano dovette impegnarsi a rispedire nel “paradiso sovietico”, all’epoca celebratissimo dai comunisti nostrani, tutti i cittadini russi che negli anni precedenti avevano preferito di vivere sotto la dittatura fascista. Una volta in Russia, furono tutti uccisi o deportati in Siberia.
La tragica sorte dei 1300 “non fascisti”
Sorte non migliore di chi andò a combattere contro l’Urss, toccò ai militari italiani internati (denominati Imi) dai tedeschi dopo l’8settembre. Nel ’44 finirono in mano sovietica e nonostante non avessero seguito Mussolini a Salò e nonostante l’Italia fosse ormai “cobelligerante” con gli Alleati furono rinchiusi nei gulag comunisti. Erano 1300. Morirono tutti.