L’antimafia? La inventò Mussolini, parola di Massimo Fini

9 Dic 2014 18:00 - di Aldo Di Lello

«È noto che la mafia assume il potere che assume perché gli americani l’hanno usata come appoggio per lo sbarco in Sicilia. L’unico regime che l’ha davvero combattuta è stato il fascismo. Un regime forte non può accettare che ci sia all’interno un altro regime forte». Ribadisce un dato storico arcinoto lo scrittore Massimo Fini nell’intervista concessa a Il Giornale Off. Si tratta però di una verità talmente nota che, come regolarmente accade alle verità scomode, viene sistematicamente dimenticata. E allora desta sicuramente interesse e fa a suo modo “notizia” quando qualcuno, magari uno scrittore anticonformista come Massimo Fini,  ripropone certe verità in momenti di crisi morale e politica come quello che l’Italia sta attraversando oggi.

Il boss e lo sbarco degli Alleati

C’è semmai da precisare che, non solo per un «regime forte» come il fascismo, ma per qualsiasi Stato degno di tale nome, la presenza mafiosa risulta intollerabile. Il punto è però che lo Stato italiano scaturito dal ’45 sconta purtroppo diversi  vizi  d’origine: quello della sconfitta militare e della limitazione di sovranità che ne scaturì, quello delle lunga egemonia di culture politiche, come quella democristiana e come quella comunista, sostanzialmente estranee all’idea di uno Stato nazionale forte e autorevole, quello, appunto, del ritorno in forze dei mafiosi scacciati dal prefetto Mori e dal fascismo, al seguito degli Alleati nello sbarco in Sicilia del 1943. Determinante fu in tal senso il ruolo svolto dal boss Lucky Luciano, d’intesa con l’Oss americano (il precedessore della Cia), nel preparare il terreno al futuro governo dell’isola.

Quando il duce visitò Palermo

Questi vizi d’origine li scontiamo purtroppo anche oggi. E ben al di là dei confini della Sicilia. Anzi, diciamo che la mafia, intesa come capacità di corruzione del sistema politico e delle istituzioni locali, ha raggiunto livelli di pericolosità ben lontano dalla sua terra, diciamo così, d’origine. Ma tutto riconduce sempre alla stessa matrice: la debolezza dello Stato, una debolezza intesa non tanto come insufficienza di leggi e di mezzi (sia detto per inciso, la legislazione italiana in materia è sicuramente all’avanguardia dalla legge, dalla legge Rognoni-La Torre  in poi), ma come cultura delle classi dirigenti, a partire appunto dal senso dello Stato. E qui, sempre in tema di confronti storici,  merita di essere ricordato un episodio narrato dal compianto Giuseppe Tricoli (lo storico di destra siciliano amico di Paolo Borsellino) in un volumetto dedicato alla figura del prefetto Mori. Riferisce Tricoli che Mussolini decise di usare il pugno duro con i mafiosi dopo una visita in Sicilia. Accadde che, mentre il duce girava per Palermo in macchina, un notabile che gli era seduto a fianco notò diversi signori fermi nelle strade dall’aria tipica degli agenti in borghese. A quel punto il notabile  si rivolse al capo del governo per rassicurarlo e gli disse che non c’era bisogno di tutto quello spiegamento di forze, perché, se il duce era in sua compagnia, non poteva capitargli niente di male a Palermo. Quel notabile era chiaramente un boss mafioso e pensava di rivolgersi a Mussolini come si sarebbe rivolto a un qualsiasi politico dell’Italia liberale. Mal gliene incolse. Mussolini non disse nulla. Pochi giorni dopo era già pronto il decreto di nomina di Cesare Mori a prefetto di Palermo. Dal 1945 in poi è invece spesso capitato che i politici abbiano chiesto voti ai notabili mafiosi.

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